di Antonio Lovascio · La marcia dei trattori su Bruxelles, i falò accesi per le strade e davanti al Parlamento Ue sono solo un segno della prossima chiamata degli elettori europei alle urne. Rendono visibile un malessere, un malcontento che certo non si placa con concessioni elargite dopo la protesta, in parte motivata, se non si trovano soluzioni strutturali. Ma queste tardano anche perché l’Europa non ha completato ed ora ha perso l’identità progettata dai Padri Fondatori, la forza di coesione necessaria per migliorare le proprie politiche, come abbiamo visto nell’emergenza delle Migrazioni e per le guerre in Ucraina ed a Gaza, rinunciando ad un ruolo da protagonista.
L’identità europea svanita non si ricostruisce dall’oggi al domani, soprattutto se ogni Paese non fa un serio esame di coscienza e ritorna a delineare un’anima collettiva per fermare un declino cominciato da molto tempo. Basta guardare in casa nostra. Dove partiti “liquidi” – sposiamo in pieno l’analisi di un sociologo esperto e saggio, il “padre” del Censis Giuseppe De Rita – mostrano fragilità limitandosi ad esaltare solo la loro identità politica e culturale. Alcuni si affannano a rinforzare la loro immagine storica, di fiamme emotive e pantheon di antenati magari presi in prestito. Altri si rifugiano nella difesa antica contro l’inquinamento migratorio; altri ancora cercano di andare in piazza, pur sapendo che le piazze possono dichiarare una identità ma non crearla. Altri cercano di smuovere onde d’opinione , pur sapendo che esse sono le vere nemiche dell’identità di largo respiro e di spessore. Altri navigano nelle tante disuguaglianze e nelle potenziali nuove difficoltà collettive, pur sapendo che nella nostra società molecolare le disuguaglianze restano molecolari. Altri infine si aggrappano alle guerre in corso , pur sapendo che lo schierarsi per l’una o per l’altra parte in lotta (e non per la pace ogni giorno invocata da Papa Francesco) non garantisce ormai un peso reale nella dialettica nazionale.
Comunque una cosa è certa: i partiti del Centrodestra dichiarano tutti di voler restare uniti, in Europa come al governo guidato sa Giorgia Meloni. Ma di fatto le strategie di FdI, Lega e Forza Italia non coincidono a tre mesi dalle elezioni che potrebbero ridisegnare le alleanze a Bruxelles e a Strasburgo. Ne vedremo delle belle in estate, quando dovrà essere insediata la nuova Commissione esecutiva, alla presidenza della quale si ricandida Ursula von der Leyen, ora sostenuta dal Partito Popolare Europeo (di cui fa parte Forza Italia), da una parte dei socialdemocratici (S&D) con il Pd, dai liberali e dagli euroscettici moderati, tra cui il Movimento 5 Stelle.
Intanto registriamo che indistintamente tutte le nostre forze politiche sembrano dimenticare che l’identità è data dal suo declinarsi nella vita concreta di tutti i giorni. Ecco perché occorre rilanciare con coraggio il mondo delle relazioni, rinnovando il linguaggio ed abbandonando il populismo del “vaffa” che ha avvelenato gli ultimi anni. Puntando su un confronto più serio e preparato, specie sui grandi temi (dalla transizione energetica all’intelligenza artificiale) sui quali sarà chiamato a decidere il Parlamento europeo. Ed essendo in gioco le vite delle prossime generazioni, vanno coinvolti i giovani, anche nella formazione delle liste elettorali, se si vuole sventare la grande paura di giugno, quando si sceglieranno 720 componenti (15 in più) dell’assemblea di Strasburgo. Il timore che vada alle urne meno del 50 per cento degli aventi diritto, certificando un disinteresse per il destino dell’Europa ed alimentando il disfattismo di chi – pure nella nostra Penisola – rema contro. In molti Paesi membri è stata ridotta la soglia d’età per esercitare il diritto di voto, a 17 anni come in Grecia o addirittura a 16 anni come in Germania e Austria. Ed è stata abbassata anche l’età per essere eletti. L’Italia però rimane il Paese della Ue che dà meno diritti politici ai giovani : si vota a 18 anni, per essere eletti bisogna averne 25. Ma nessuno si scandalizza, anzi alcuni sostengono che una riduzione dell’età minima di voto non è la soluzione per ridurre l’astensionismo. Forse, ma almeno favorirebbe la partecipazione alla vita pubblica, che andrebbe però incoraggiata con un’adeguata educazione civica da parte della Scuola e della famiglie. Ma troppi genitori e insegnanti purtroppo non possono dare il buon esempio essendosi loro stessi allontanati dalla politica. E se questa diviene inutile per gli elettori, il primo effetto è la corporativizzazione dei corpi sociali, degli interessi personali, delle lobby e l’aumento dei conflitti. Che non potranno essere sedati alla lunga con la droga del debito pubblico. I primi a pagarne il prezzo sono e saranno, infatti, proprio i giovani insieme alle donne e agli anziani, le vittime più fragili di un Paese “autogovernato” in modo disordinato e anarchico dai più forti. Una democrazia così concepita non ha il futuro garantito.