L’anniversario di Nicea e il Giubileo del 2025… felice coincidenza

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Una rappresentazione del concilio di Nicea

La bolla di indizione del Giubileo del 2025 Spes non confundit – promulgata da papa Francesco il 9 maggio scorso – riporta in maniera un po’ inattesa un riferimento all’anniversario del Concilio di Nicea, svoltosi nell’anno 325; concilio che dunque il prossimo anno “compirà” 1700 anni. In maniera un po’ inattesa – si diceva – perché a ben vedere non ci saremmo attesi un richiamo ad un fatto di centinaia di anni fa, all’interno di un testo pontificio chiamato a indire il prossimo anno giubilare e a presentare di quell’anno occasioni e modalità di svolgimento.

Si è voluto inserire un riferimento al Concilio, perché bisognava farlo, data l’occasionale coincidenza? Se così fosse stato, si sarebbe trattato di un inutile sfoggio di erudizione. Ma se percorriamo il paragrafo numero 17 – un paragrafo lungo e centrato proprio sulla rievocazione del Concilio ecumenico – comprendiamo che non si tratta di una semplice notazione sulla coincidenza temporale. Si comprende, piuttosto, come quel Concilio a giudizio del papa abbia qualcosa da dire alla Chiesa che si appresta a celebrare il Giubileo del 2025.

Innanzitutto, Nicea non è un Concilio ecumenico qualsiasi: Nicea è il primo Concilio ecumenico. Nicea è il primo Concilio, cioè, nel quale la Chiesa universale ha avvertito che ci sono questioni che non riguardano quella o questa Chiesa particolare; che alcune questioni riguardano la vita e la fede della Chiesa in quanto tale, oltre i confini e al di là delle appartenenze etniche: questioni legate, ad esempio, alla retta dottrina sul Figlio di Dio incarnato, come in questo caso. Ora – secondo un’antica norma del diritto romano – quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet; donde la sollecitudine a occuparsi di una questione che ha un’origine storica e geografica precisa (la Chiesa di Alessandria dei primi decenni del IV secolo), ma che – toccando un articolo fondamentale della fede cristiana – interessa tutta la Chiesa.

Su un punto in particolare il papa desidera che si soffermi l’attenzione di chi legge, rilevandone un insegnamento per la Chiesa di oggi. Il papa nota come il Concilio di Nicea – proprio perché fu il primo Concilio ecumenico – può confermare la Chiesa di oggi nel cammino sinodale, che la sta impegnando a livello universale negli ultimi anni; facendo cogliere ad essa come anche nella storia si sia verificata l’importanza dell’atto del camminare insieme. È vero che si dovrà ragionare per analogia, dal momento che il Concilio ecumenico è realizzazione solenne della communio episcopalis, mentre il cammino sinodale implica la partecipazione di tutti i battezzati. Ma la spinta all’unità, alla ricerca di una strada comune da percorrere: tutto questo pone il cammino sinodale al seguito del Concilio di Nicea.

Il Concilio – prosegue il papa – «rappresenta un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: “Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21)». In quest’ottica si colloca anche il richiamo alla datazione della Pasqua, che impegnò gli stessi padri conciliari a Nicea e che ancora oggi costituisce un elemento visibile non di unità, ma di divisione tra Oriente e Occidente. Il prossimo anno, dice il papa, la Pasqua sarà provvidenzialmente celebrata nello stesso giorno: «Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua».

C’è un’ultima questione che vorrei affrontare, anche se non toccata dal papa al n. 17 di Spes non confundit. Non è forse sufficientemente considerato dalla Chiesa di oggi – e dai suoi storici e teologi – il fatto che la dichiarazione della pienezza della divinità del Figlio non fu un dato scontato; anzi è opportuno ricordare che la posizione contraria sul punto era quella prevalente. Se era prevalente, era perché era la più facile da seguire. In fondo, sarebbe bastato applicare – come voleva Ario – la gradazione ontologica delle ipostasi sul modello neoplatonico alle persone della Trinità e tutto sarebbe stato più facile concettualmente da gestire. Ma i padri del Concilio – su tutti il grande Atanasio, patriarca di Alessandria – intuirono che sulla pienezza della divinità del Figlio si metteva in gioco anche la capacità che Gesù stesso aveva di salvarci. Si tratta di quello che nella storia del dogma è detto “argomento soteriologico”, cioè l’affermazione consequenziale: “se Gesù non è Dio in pienezza, non mi salva”. E il ragionamento si concludeva: “ma Gesù mi salva; dunque, Gesù è il Figlio di Dio consustanziale al Padre”.

A Nicea la Chiesa intuì che ne andava della corretta percezione della salvezza di Cristo, anche se l’onda della catechesi e della pastorale pareva spingere da un’altra parte. Forse, in questo – come in tante altre occasioni – si misura quanto sia grande e quanto sia forte l’assistenza dello Spirito, che guida la Chiesa alla conoscenza della verità tutta intera (cf. Gv 16,13).

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Francesco Vermigli

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