La Pentecoste fra la discesa dello Spirito e la torre di Babele

656 492 Stefano Tarocchi
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È abbastanza comune sentire, anche attraverso le pagine bibliche introdotte dalla liturgia, un legame fra il capitolo 2 degli Atti degli apostoli, che racconta la discesa dello Spirito Santo nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua e Genesi 11 che invece parla dell’episodio della costruzione della torre di Babele «la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,4).

Qui non abbiamo il tempo di entrare nei dettagli quest’ultimo episodio, collocato nel primo libro della Bibbia. Vorremmo tuttavia evidenziare il motivo per cui nella stessa liturgia l’episodio della Pentecoste viene legato a quello della Genesi.

Richiamiamo soltanto alcuni versetti del racconto della torre di Babele, a partire dalla premessa del racconto: «tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (Gen 11,1). Quella che in apparenza dovrebbe essere una premessa positiva, nel racconto biblico viene interpretata come la volontà umana di abbattere il nome del Creatore, nel farsi «un nome, per non disperdersi su tutta la terra» (Gen 11,4). Ma il Signore Dio risponde: «scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro… Per questo la si chiamò Babele (ebr: Babél), perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (Gen. 11,7.9).

Contrariamente a una lettura spiritualeggiante data per acquisita, il testo del libro degli Atti è legato al racconto della Genesi da una precisa espressione, culminata in un sostantivo, non a caso derivante da un verbo greco tradotto come “turbare, confondere”. Così leggiamo infatti nel libro degli Atti: «a quel rumore (lett. “voce”), la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua (At 2,6).

Ma la voce di Dio è proprio un fragore, il fragore come del tuono: così leggiamo in Atti: «venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.  Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,3-4).

Ora, secondo il libro dell’Esodo, l’alleanza con Mosé sul monte Sion si basa sull’ascolto della voce del Signore: «se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia, infatti, è tutta la terra!» (Es 19,5).

La tradizione rabbinica commenta che ogni parola uscita dalla potenza divina sul monte Sinai si divide in settanta lingue (Rabbi Jochanan). Settanta è un numero simbolico, se nella concezione ebraica il mondo era costituito da settanta popoli. Così le settanta lingue stanno a indicare che la Legge, la parola divina, è offerta a tutti i popoli.

In questo preciso caso è la stessa volontà di Dio di far comprendere a tutti i popoli della terra la sua voce. Infatti, un midrash, tipico commento dell’ebraismo, al libro dell’Esodo così dice: «la voce di Dio sul Sinai fu intesa da ciascuno secondo la sua capacità di intendere. Gli anziani la intesero secondo la loro capacità, i giovani secondo la loro capacità, e così anche i bambini, i lattanti e le donne. Persino Mosè la intese secondo la sua capacità».

Dunque, nel giorno di Pentecoste quanti erano presenti in Gerusalemme, come espressione dei popoli aderenti all’ebraismo delle terre vicine, che però non parlano l’ebraico, ricevono il kérigma della Pasqua ciascuno nella loro lingua, che diventa in questo circostanza un valore unitivo in ragione della sua provenienza divina, nel nome di Gesù, il nome «che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9).

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Stefano Tarocchi

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