La legge e i soggetti della legge delle prime comunità cristiane
di Francesco Romano • Che i singoli cristiani delle prime comunità fossero consapevoli di essere soggetti a norme vincolanti proprie che si differenziavano da quelle dell’autorità statale risulta chiaramente dalle fonti storiche. Il principio per il quale si deve dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare (Lc 20, 25), non trovava solamente nel Vangelo il fondamento della separazione delle due potestà, ma voleva anche esprimere che esistevano due sistemi normativi diversi.
Accanto al riconoscimento del diritto divino, radicato nel Vangelo, nelle Lettere e negli Atti degli Apostoli, è pure chiaramente definita l’autorità legislativa propria della comunità ecclesiastica terrena. È ovvio che questo diritto non appariva in forma organizzata, ma si appoggiava inizialmente in modo precipuo alla tradizione e, in maniera consapevole o apparente, alla consuetudine. Le numerose lettere che le comunità si scrivevano, resero possibile anche lo scambio e la comunicazione di prescrizioni giuridiche. Anche le assemblee dei vescovi divennero fonti di diritto e non ultimo, se non pure raramente, il Vescovo di Roma al di fuori dell’ambito della sua comunità.
La questione che riguardava chi dovesse ritenersi soggetto al diritto ecclesiastico, era già stata costituzionalmente regolata dal Vangelo. Cristo impose come premessa indispensabile per essere membri della Chiesa visibile il ricevimento del battesimo e affidò agli apostoli la missione di predicare ovunque il Vangelo e di battezzare (Gv, 3,5; Mc, 16, 15). Anche gli Atti degli Apostoli fanno rilevare che con il battesimo nel giorno della Pentecoste furono accolti nella comunità circa tremila nuovi membri (At, 2, 41), e S. Paolo si esprime in modo esplicito quando scrive che si viene assunti nel corpo della Chiesa con questo sacramento, che non comporta dunque soltanto l’inserimento nella Chiesa stessa, ma fa nascere nel soggetto diritti e doveri. Il diritto ecclesiastico perciò si riferiva solamente ai battezzati.
In via indiretta si può dedurre l’esclusività della subordinazione dei battezzati alla giurisdizione della Chiesa dalla così detta disciplina dell’arcano, detta anche disciplina del silenzio, in uso nella Chiesa dal III secolo per rendere celate ai catecumeni alcune nozioni della liturgia e delle prescrizioni di culto collegate con la cerimonia eucaristica ecc. Da un punto di vista giuridico essa si dimostra interessante in quanto esprimeva chiaramente che i pieni diritti di appartenenza alla Chiesa e i doveri della stessa erano riconosciuti appunto soltanto ai cristiani battezzati.
La denominazione di canone (κανών) come regola generale di fede e di vita dei cristiani era già usata nel I secolo per le prescrizioni di diritto ecclesiastico. Gradatamente tale termine, soprattutto sotto l’influenza delle decisioni conciliari, divenne il vocabolo indicante le norme di diritto ecclesiastico. Naturalmente questo periodo non conosceva ancora una tecnica ben sviluppata di diritto e di legge, la promulgazione avveniva in forma di comunicazione alle comunità o per iscritto sotto forma di lettera. Ciò che importa è che l’esistenza del diritto è dimostrata, senza naturalmente che esistesse ancora una prescrizione tecnica per il suo sviluppo e il suo riconoscimento.
A proposito delle istituzioni penali e penitenziali si può rilevare dalle fonti che gli inizi dell’istituto giuridico della dispensa si trovano già in questo periodo, pur non potendosi ancora parlare di un istituto giuridico. In via di principio già si affermava in questo periodo il concetto giuridico che il legislatore può dispensare anche dal suo diritto e dalle relative conseguenze.
La tendenza a chiarire e decidere mediante consultazioni in riunioni ecclesiastiche questioni interessanti le diverse comunità cristiane trova un precedente nel concilio degli apostoli in Gerusalemme dell’anno 50. L’esempio degli apostoli rappresentò fin dagli inizi una delle fonti di origine dei concili ecclesiastici.
Un’altra fonte risale all’uso dello Stato romano. Nelle provincie dell’Impero si tenevano annualmente solenni riunioni (κοινόν) che avvenivano generalmente nella capitale o in un sacrario della provincia. Vi si raccoglievano i delegati delle comunità, i rappresentanti dello Stato detti decuriones e del culto dello Stato, i sacerdotales. Queste riunioni provinciali statali esercitavano il loro influsso anche sulle assemblee ecclesiastiche provinciali. Tertulliano per la prima volta chiama le riunioni ecclesiastiche “concilia”, mentre Dionigi Alessandrino le denomina “synodus”. Nel periodo successivo entrambe le espressioni vennero usate come sinonimi.
Per lo sviluppo del diritto ecclesiastico i concili ebbero un’importanza decisiva perché in luogo e accanto al diritto formato dalla tradizione e dalla consuetudine, subentrava ora il diritto normativo. Le conclusioni venivano sottoscritte a datare dal IV secolo dai vescovi presenti e talvolta dai presbiteri, quindi le decisioni conciliari erano comunicate agli altri vescovi con lettera circolare.
L’eccezionale importanza giuridica materiale delle riunioni ecclesiastiche riguardava la conservazione e la purezza della dottrina di fede, la statuizione di sentenze giudiziarie, l’applicazione di pene contro i vescovi e sacerdoti e infine l’ordinamento di questioni amministrative. Nei concili ecumenici fu creato sia il diritto particolare, sia il diritto generale. Oltre a norme giuridiche vincolanti, in questi concili si decideva su questioni di fede, di sanzioni penali, per esempio di scomunica, di politica ecclesiastica ecc.
La promulgazione delle decisioni conciliari da parte delle leggi imperiali non era prescritta per l’ambito ecclesiastico. Essa assicurava solamente il riconoscimento per la sfera statale ed ecclesiastico-statale. Qualora le decisioni che non avevano ottenuto una approvazione papale fossero state confermate dalla legge imperiale, per questo non ottenevano la validità generale della Chiesa.