di Alessandro Clemenzia · È recentemente uscito il Documento finale della seconda sessione dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi (24 ottobre 2024), dove sono raccolti i frutti di un intenso lavoro che ha visto il coinvolgimento e la partecipazione di tutte le Chiese locali.
Molte sono state le voci critiche che si sono alzate in questo tempo, quasi che ci si aspettasse da un Sinodo quanto soltanto in realtà un Concilio è in grado di offrire. Molti dimenticano probabilmente la differente natura giuridica, nell’ordinamento ecclesiale, tra gli organi che hanno un valore consultivo, finalizzati all’approfondimento di alcune specifiche tematiche, e quelli che, invece, godono di una suprema autorità, come ad esempio il Collegio Episcopale. Rimando, a tale proposito, all’articolo del professor Andrea Drigani dello scorso numero (novembre 2024). Tali polemiche, inoltre, dimenticano che la sinodalità, per papa Francesco, consiste prima di tutto in un “metodo” particolare di essere Chiesa, in uno “stile” relazionale, per recuperare un termine più volte da lui stesso fatto proprio.
Interessante, a tale proposito, è quanto è riportato nel Documento finale a proposito del significato dei lemmi “sinodalità” e “sinodale”: «Grazie all’esperienza degli ultimi anni, il significato di questi termini è stato maggiormente compreso e più ancora vissuto» (n. 28). Con queste parole viene messo in luce come dietro a questi vocaboli vi sia ormai una maturità scaturita da una consolidata esperienza, capace di offrire ad essi un significato molto più autentico rispetto ad una teoria ecclesiologica astratta e generale, costruita magari a tavolino. È scritto ancora nel Documento: «La sinodalità è il camminare insieme dei Cristiani con Cristo e verso il Regno di Dio, in unione a tutta l’umanità; orientata alla missione, essa comporta il riunirsi in assemblea ai diversi livelli della vita ecclesiale, l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario, il formarsi del consenso come espressione del rendersi presente di Cristo vivo nello Spirito e l’assunzione di una decisione in una corresponsabilità differenziata» (n. 28). Il “consenso” è qui presentato come espressione e, dunque, come concreta visibilità del rendersi presente di Cristo vivo; non si tratta di una opinione condivisa da una maggioranza, in quanto il fine che si vuole raggiungere è l’unanimità.
È evidente come il Documento finale del Sinodo non abbia l’intenzione di arrivare ad una rivoluzione della struttura ecclesiale, ma di narrare un’esperienza condivisa da cui è scaturita una rinnovata intelligenza della fede e, dunque, una nuova intelligenza della realtà.
Da qui emerge l’importanza e la decisività delle relazioni interpersonali, colte come possibile “luogo” della presenza di Cristo, attraverso cui la Verità può raggiungere anche coloro che sono esterni a tale relazione.
È riportato ancora nel Documento: «Il desiderio di relazioni più autentiche e significative non esprime soltanto l’aspirazione di appartenere a un gruppo coeso, ma corrisponde a una profonda consapevolezza di fede: la qualità evangelica dei rapporti comunitari è decisiva per la testimonianza che il popolo di Dio è chiamato a dare nella storia» (n. 50). Questi rapporti, dunque, nel momento in cui raggiungono una certa qualità evangelica (interessante che l’attenzione non venga rivolta alla “quantità”, a cui oggi molto spesso si fa in continuazione riferimento), sono di per se stessi un’efficace testimonianza della natura e della missione della Chiesa.
E ancora: «Vivendo il processo sinodale abbiamo preso nuova coscienza che la salvezza da ricevere e da annunciare passa attraverso le relazioni» (n. 154). Torna nuovamente in questa citazione l’importanza e la fondatezza dell’esperienza come via di accesso ad una nuova autocoscienza. Ciò di cui il mondo ha veramente bisogno non è della Chiesa, ma di Cristo e di quella salvezza che lui solo è capace di offrire all’umanità ferita di oggi; la vera missione della Chiesa, dunque, è quella di ricevere e annunciare questa salvezza. Prima di tutto “ricevere”, in quanto essa non è il risultato di un’azione pastorale o dottrinale della Chiesa, ma è un dono che soltanto Dio può elargire. Una volta ricevuta questa salvezza per grazia, la Chiesa può a sua volta annunciarla, sempre però con la consapevolezza che, attraverso l’annuncio, è Dio stesso a comunicarsi ai destinatari. La nuova coscienza che il processo sinodale ha raggiunto è che questa salvezza, prima da ricevere e poi da annunciare, passa proprio attraverso le relazioni comunitarie. Ciò significa che queste ultime possono diventare, sempre per grazia, segno e strumento di questa salvezza.
Le relazioni dunque hanno una loro efficacia, tale da generare negli interlocutori la stessa realtà che si vuole annunciare, non attraverso la propria capacità dialogica, ma perché Dio stesso, che è relazione, trova nei rapporti comunitari l’accesso per arrivare a coloro che vivono fuori dell’esperienza ecclesiale.