La felicità: chi studia la raggiunge?

Di Laura Donnini · Questa mattina, mentre tentavo di ridare un ordine al caos in cui è immersa camera mia, mi sono imbattuta in un ritaglio di un articolo tratto da un vecchio numero di Sette, il settimanale pubblicato insieme al quotidiano Corriere della Sera ogni venerdì. Il titolo di tale pezzo era “Aristotele e la felicità: chi studia la raggiunge”. Mi ci è voluto poco per capire perché in passato lo avessi conservato. Questo articolo mi ha fatto ripensare ad almeno due eventi.

Solo qualche giorno fa poi, viaggiando da sola in treno, ho guardato un video di una conferenza organizzata dal gruppo FUCI Roma Sapienza, tenutosi nella prestigiosa Sala Zuccari presso il Palazzo Giustiniani, dal titolo “Lo studio: un dovere sociale”, in ricordo della figura di Giulio Andreotti.

Quasi seguendo un filo rosso, tali parole e eventi recenti sullo studio e la felicità mi hanno spinto a interrogarmi, avendo alle spalle, anche solo da un punto di vista quantitativo, la maggior parte della vita passata sui libri.

Il nucleo del primo articolo citato era che solo una vita dedita allo studio può davvero dirsi felice, dal momento che precondizione della felicità è capire chi siamo e lo studio permette di raggiungere quest’ultimo obiettivo. Inoltre, secondo Aristotele, quando studiamo realizziamo la nostra natura di esseri razionali: “(q)uesto desiderio di capire, di conoscere, di dare un senso alla nostra esistenza è qualcosa di unico e di solo nostro”.

Da Aristotele mi ricollego alla mozione fucina che citava San Giovanni Bosco, fondatore della “Società salesiana”, e il suo desiderare e adoperarsi concretamente per far sì che i ragazzi fossero “felici nel tempo e nell’eternità”. La mozione si articolava poi attorno ai moderni filoni di studi sull’economia comportamentale, l’economia ed ecologia della felicità, ai nuovi indici sostitutivi al PIL…

Personalmente, non mi spingo ad affermare in modo perentorio come Aristotele l’equivalenza tra lo studio ed una felicità duratura e di carattere qualitativamente diverso dal piacere, ma propongo una correzione benevola del titolo del pezzo iniziale di Sette in “la felicità: chi studia fatica per trovarla”. Dire che tutti gli uomini aspirano alla felicità pare verità scontata, e chi lo nega mente. Tutti la desiderano e la cercano. E sono sicura che la felicità, figura chimerica e camaleontica, non si faccia “acchiappare” solo dagli studiosi, ma che sia destinata a tutti noi.

In conclusione, a mio avviso, lo studio, dal latino studium (zelo, passione, impegno), può insegnare la felicità se la si è cercata agendo, faticando, non solo aspettando. E con questo modus operandi avremo scoperto e sfogliato, oltre a tanti libri, anche le pagine di noi stessi, svelandoci a noi e agli altri.