di Francesco Vermigli · Anche se i contesti possono apparire simili, sono diversi la portata, lo stile, l’indole di alcuni recenti discorsi che papa Francesco ha tenuto davanti alle comunità accademiche a Lovanio e in Gregoriana. Chi scrive ha rimandato la stesura di un articolo per questa stessa rivista – previsto subito dopo i discorsi a Lovanio (27 e 28 settembre) – una volta che era venuto a conoscenza che il papa sarebbe stato presente anche in Gregoriana a inizio novembre. La cosa ha un suo vantaggio inequivocabile: che ora possiamo confrontare a distanza di poche settimane discorsi, come accennato, dallo stile, dalla portata e dall’indole assai diversi.
Due sono i discorsi tenuti a Lovanio, sì!, perché il papa è stato costretto a questo dalla storia assai convulsa dell’Università Cattolica di Lovanio. Per capire perché abbia tenuto due discorsi, bisogna risalire ai primi mesi del 1968, quando dopo le sollevazioni popolari fiamminghe (che rivendicavano una posizione paritaria nell’accademia e nella cultura della nazione, tradizionalmente in mano francofona), la caduta del governo belga causata da quelle stesse proteste, la nuova posizione della Chiesa in Belgio sul punto, condussero alla divisione dell’unica università (sita in territorio fiammingo ma da sempre francofona) in una sede di lingua francese e in una di lingua fiamminga.
I due discorsi lovaniensi mostrano differenze dovute al fatto che l’intervento tenuto a Leuven (il 27) è stato rivolto al corpo degli insegnanti; quello a Louvain (il 28) agli studenti. Inoltre, nel secondo caso l’intervento appare come una risposta ad una lettera scritta dagli studenti stessi: la qual cosa ha condotto il papa a trattare in maniera preminente di ecologia integrale e di ruolo della donna nella Chiesa e nel mondo. Certo non mancano agganci tra i due discorsi: il tema della verità è presente in entrambi i discorsi, sebbene assai più sviluppato nel primo; dove si invita la comunità accademica di lingua fiamminga ad allargare i confini della conoscenza e a guardarsi dal relativismo (che conduce alla “stanchezza dello spirito”: perché, se per definizione tutto è valido e tutto è vero, a che serve cercare e confrontarsi e camminare insieme?) e dal razionalismo.
Come noto, nel secondo caso uno strascico polemico ha fatto assurgere il discorso a notizia di interesse per i mass-media. Ma la lettera anonima – pubblicata a pochi minuti dal termine del suo discorso (e di chi è, poi? della rettrice? del Senato accademico convocato di urgenza e che in pochi minuti ha riflettuto sull’intervento del papa e ha scritto una lettera critica?) – è la dimostrazione che proprio sul tema del dialogo e del confronto – tante volte sbandierati dalle Università occidentali – proprio le comunità accademiche devono imparare a camminare. Dal momento che, con tutta evidenza, si trattava di una lettera scritta (se non tutta, almeno in parte) prima del discorso e quindi disinteressata ad ascoltare e a confrontarsi con qualsiasi cosa avesse detto il papa.
E ora veniamo al discorso tenuto in Gregoriana, il 5 novembre scorso. Innanzitutto, esso si distingue per un’articolazione degli argomenti e per una estensione assai più grande dei due discorsi tenuti a Lovanio. E appare – mi permetto di sottolinearlo – di maggiore densità sia ecclesiale, sia teologica. Qui raccogliamo i punti di maggiore novità e di maggiore efficacia.
A risonanza di passaggi fondamentali della Dilexit nos (che era stata appena resa pubblica e che abbiamo presentato lo scorso mese in questa stessa rivista online: vedi), colpisce l’insistenza con cui il papa si rivolga a docenti, studenti e personale della Gregoriana richiamando la necessità di conoscere e insegnare “con il cuore”. Il cuore permette di conoscere meglio dell’arido intellettualismo, il cuore crea relazioni nella comunità accademica: «Solo il cuore sa accogliere e dare una patria» (R. Guardini, citato dal papa). Così facendo la cultura diventa «una missione d’amore», come dice Francesco: «Curatevi di quello che resta, alla sera della vita, perché saremo giudicati sull’amore». Tra le parole conclusive si legge: «prima di concludere vi affido un’ultima annotazione di Sant’Ignazio, la seconda negli Esercizi, pensando in particolare a voi studentesse e studenti: “Non è il molto sapere che appaga l’anima ma il sentire e gustare le cose”. Una onesta valutazione dell’esperienza formativa si basa sull’essere introdotti e aiutati a procedere da soli in profondità».
Bellissimo il passaggio in cui si trascrive una poesia di Francesco de Quevedo che guarda ad una Roma non più gloriosa, ma città rovinata e fatiscente che un Tevere esangue tristemente attraversa: serve al papa per mettere in guardia la Gregoriana dal rischio di illudersi di sopravvivere con dei monumenti. E bello, davvero bello il ricordo del gesto di Enea che in fuga da Troia non dimentica il padre Anchise e il figlio Ascanio, a simboleggiare che viene consegnata alla Gregoriana la missione di essere attenta nel presente e nel futuro senza strappare le radici, quelle ignaziane.
In queste radici ignaziane – è evidente – papa Francesco si muove con grande disinvoltura. Non solo, lo fa con una sollecitudine e con una passione per le sorti di quella Università, difficilmente pensabili altrove. Il papa è molto diretto: perché la nuova istituzione che riunisce Gregoriana, Biblico e Orientale non si chiama Collegio Romano come all’origine? L’avete compresa la Veritatis gaudium? Vi state occupando di intelligenza artificiale? Ma soprattutto un invito accorato al discernimento: «perché fate le cose che state facendo e per chi lo fate?». È la domanda delle domande, che il papa consegna a quella accademia che ha le radici che affondano in un gruppo di studenti, venuti a Roma sotto l’ispirazione del carisma di Ignazio e dietro una porta che recava la scritta: “Scuola di grammatica, di umanità e dottrina cristiana, gratis”. Gratuitamente, come gratuita è la salvezza di Gesù.