Il debito dei Paesi poveri: non solo questione di soldi
, promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, approfittando dell’occasione dell’Anno Santo del 2025 che sta per iniziare, Papa Francesco ha affrontato la questione della nuova grande crisi del debito che colpisce soprattutto i Paesi del Sud del mondo che, come sempre, genera miseria e angoscia, privando milioni di persone della possibilità di un futuro dignitoso. Richiamandosi alla tradizione biblica della remissione dei debiti nell’anno giubilare (cf. Dt 15 e Lev 25) e a quanto ricordava S. Giovanni Paolo II in occasione del Grande Giubileo del 2000 riguardo al debito estero, che «non è solamente di carattere economico, ma investe i principi etici fondamentali e deve trovare spazio nel diritto internazionale», Papa Francesco esorta ad approfittare del prossimo Giubileo come occasione per gesti di buona volontà, per condonare i debiti o almeno ridurli in funzione del bene comune, invitando a non dimenticare «che siamo solo custodi e amministratori, e non padroni» dei beni in nostro possesso.
Consapevole della complessità della situazione Francesco invita anche a elaborare «una nuova architettura finanziaria internazionale che sia audace e creativa (…) un meccanismo multinazionale, basato sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli, che tenga conto del significato globale del problema e delle sue implicazioni economiche, finanziarie e sociali». Per cui non sarebbe sufficiente «un finanziamento qualsiasi, ma quello che implica una responsabilità condivisa tra chi lo riceve e chi lo concede. Il beneficio che questo può apportare a una società dipende dalle sue condizioni, da come viene usato e dagli ambiti in cui si risolvono le crisi dei debiti che possono prodursi».
Con questa affermazione il Papa richiama implicitamente due aspetti mai affrontati adeguatamente nella lunga storia del debito dei paesi in via di sviluppo: quello dell’efficacia e della sostenibilità dei condoni e dei finanziamenti del debito fin qui concessi dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali (in particolare Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e quello della responsabilità nella gestione dei finanziamenti ricevuti da parte dei governanti dei paesi debitori, entrambi riconducibili al tema della condotta morale dei vari responsabili nella gestione del debito.
Riguardo al primo aspetto molti economisti, a cominciare da Susan George, considerata a livello mondiale una delle studiose più importanti della questione della fame nel Terzo mondo e del debito estero, concordano sul fatto che gli interventi susseguitisi nel tempo per risolvere la crisi debitoria, scoppiata la prima volta nel 1982 con la dichiarazione di insolvenza del Messico, siano stati inadeguati perché basati su valutazioni errate. Infatti, si ritenne che ci si trovasse nel pieno di una crisi di liquidità e non di insolvenza, che portò a predisporre quei “piani di aggiustamento strutturale” che, di fatto, non sono stati la soluzione del problema del debito, rivelandosi piuttosto una modalità per effettuare riforme strutturali dei paesi debitori che hanno favorito una nuova forma di colonialismo di carattere finanziario.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, è accertato che buona parte dei prestiti ricevuti sono andati a finire nei conti privati (in Svizzera o in altri Paesi del Nord del mondo) di governanti e politici di quei Paesi che hanno ricevuto il prestito, molti dei quali governati da vere e proprie dittature. Inoltre, buona parte dei prestiti sono stati usati per acquistare armi e per pagare l’esercito in modo da garantire il potere. A questo si aggiunga che parte dei prestiti ricevuti, è stata usata per costruzioni inutili, che servivano più a dare lavoro alle imprese del Nord che non a creare sviluppo nel Sud, tanto che una volta ultimati i lavori, molte di queste costruzioni e impianti non sono mai stati operativi.
Tali situazioni hanno recentemente provocato importanti proteste da parte dei giovani del Kenya e della Nigeria, sostenuti dai rispettivi Vescovi di Kenia e Nigeria, che contestano una situazione comune alla maggior parte, se non a tutti, gli Stati del continente africano, tra l’altro già denunciata nel 2019 dall’appello dei Vescovi del Kenia di unire le forze contro la corruzione. I movimenti dei giovani, di quella che viene chiamata “Generazione Z”, slegati da aggregazioni tribali e da politici tradizionali, protestano contro le politiche di austerity dei loro governi imposte dai “programmi di aggiustamento strutturale” del Fondo Monetario Internazionale, rivendicano maggior partecipazione democratica, più giustizia ed equità sociale, meno tasse e più lavoro. Denunciano la corruzione che dilapida miliardi e li priva del futuro, ben consapevoli che gli Stati africani non hanno bisogno di denaro, ma di utilizzare bene le immense risorse naturali di cui dispongono e di non sprecare il loro capitale più prezioso costituito da una popolazione in gran parte giovane.