Il Bengala dorato. Impressioni di un viaggio

600 400 Francesco Vermigli
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di Francesco Vermigli · Ogni viaggio inizia con delle aspettative e si conclude con delle riflessioni. Se aspettative iniziali e riflessioni conclusive corrispondono, significa che non si è vissuto in pienezza il viaggio che si è compiuto. E si poteva rimanere a casa. Se il viaggio sorprende, se il viaggio apre prospettive inaspettate, se il viaggio ti segna nella mente e nel cuore… significa, invece, che quel viaggio doveva essere fatto.

Chi scrive ha avuto la ventura di passare dieci giorni del mese di marzo nel Paese che dagli anni ‘70 prende il nome di Bangladesh. Un viaggio per accompagnare un gruppo di giovani alla scoperta di un Paese lontano e per verificare gli spazi di un nuovo impegno missionario in quelle terre, per conto della Comunità Giovanile San Michele di Firenze, di cui – chi scrive – è assistente spirituale e che ormai da cinquant’anni ha con il Bangladesh un legame missionario solido e articolato.

Chi scrive si era preparato bene. Si era letto qualche poesia di Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913. Aveva ascoltato l’inno bengalese (Amar sonar BanglaOh mio Bengala dorato) – composto dallo stesso Tagore – che canta di risaie e di manghi e di baniani (il fico del Bengala), di flauti e di sorrisi e di lacrime. Aveva recuperato un po’ di nozioni storiche: aveva richiamato alla memoria la storia dell’indipendenza dal colonialismo inglese alla fine degli anni ‘40 e la storia della lotta per l’autonomia dal Pakistan occidentale negli anni ’70; una lotta che sanguinava di massacri. E in quell’occasione aveva appreso della figura – che in tempi moderni ha acquisito i tratti di un culto della personalità quasi di staliniana memoria, mercé l’attuale figlia primo ministro per il quinto mandato, quarto consecutivo – del padre della Patria Sheikh Mujibur Rahman. Chi scrive, infine, si è fatto accompagnare lungo il viaggio da un libretto dal significativo titolo Morte e vita in Bangladesh (prima morte, sì, poi, solo dopo, vita…) del missionario saveriano Silvano Garello; libretto per caso trovato tra gli scaffali della biblioteca della San Michele.

Chi scrive, si è fatto condurre in quei giorni, come le acque calme e vastissime del Gange sospingono lentamente e senza fretta una barca; tra pianure senza punti di riferimento, se non qualche palma o banano che assomiglia a tutte le altre palme e a tutti gli altri banani di quelle distese pianeggianti. Chi vive in Bangladesh non può aver fretta. Forse non è proprio più così – come ai tempi del grande tifone del 1970 e della guerra civile del 1971, di cui parla quel libro di Garello – ma ancora oggi l’impressione è che in Bangladesh non si può aver fretta, perché non si può aver fretta di morire. Eppure… in Bangladesh si ha anche fretta, ma non capisci perché. Si ha fretta tra le strade, che sono un luogo brulicante di persone (e ti dici che è proprio vero quello che avevi letto sul Bangladesh come il paese con la più alta densità di abitanti al mondo…) e intrecciato di mezzi scalcinati e che imitano in alcuni casi i bus a due piani di Londra: quelli rossi, che te li ricordi fin da quando da bambino ti arrivavano in casa i servizi sulla Regina Elisabetta. Forse dalla dominazione inglese hanno ereditato solo questo: una certa fretta e qualche autobus rosso a due piani. E la guida a sinistra, obviously.

Ma per il resto non c’è fretta in Bangladesh: non hanno fretta i muezzin delle moschee disperse tra le risaie, che allungano la preghiera oltre ogni misura; non ha fretta la società a metter da parte l’antica divisione in caste. Perché il bengalese del Bangladesh (cioè del Bengala orientale, essendo quello occidentale in India) sarà anche di religione prevalentemente islamica (sennò, perché l’avrebbero diviso gli inglesi dall’India induista?) ma la cultura è bengalese; cioè in profondità rimane induista. E se questa storia delle caste non è islamica e non è dei pochi cristiani presenti, può far comodo e agli islamici e ai cristiani. Anche se ai cristiani Paolo avrebbe detto che non c’è greco né giudeo, né donna né uomo, né schiavo né libero… Ma bisogna capire il contesto, si è soliti dire…

Nei nostri viaggi lungo strade dritte e ampie – e poi improvvisamente malsicure, tutto d’un botto – che collegano a raggiera Dacca con ogni parte del Paese, mi è capitato di scattare una foto all’alba di un giorno del nostro viaggio; poco fuori della capitale, dove i bazar lasciano spazio alle risaie e a qualche palmeto. Una foto di un uomo in moto (senza casco… vabbè!) che ha uno zaino che sembra tenere al suo interno un computer portatile e sullo sfondo un sole arrossato da una nebbia che non sai se sia smog o la foschia che sale dai campi, che già pregustano il rigoglio della stagione delle piogge.

Scatto la foto e me ne accorgo solo dopo: quel sole arrossato dell’alba e quei campi verdi e boscosi richiamano la bandiera del Paese, una bandiera che allo sfondo verde sovrappone un disco rosso. Si dice che quello sfondo verde rappresenti la natura lussureggiante del Bengala e quel cerchio rosso (un po’ spostato a sinistra) è il sole che sorge su quel Paese; ma che anche rimandi al sangue dei martiri dell’indipendenza dal Pakistan. Sì – me lo ridico – quello scorcio è come la bandiera del Bangladesh. Ma tra me e quello scorcio verde e rosso c’è una moto e un uomo seduto, e non sai dove va. Moto e computer, sole arrossato e palmeti e campi… e il Gange non lontano. È un po’ la metafora del Bangladesh di oggi. Un Bangladesh che non sai dove va. E che forse ancora oggi (nonostante oltre cinquant’anni di indipendenza e di, almeno all’apparenza, vita democratica) attende esso stesso di capire dove andare.

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Francesco Vermigli

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