I sessant’anni di Ecclesiam Suam
di Alessandro Clemenzia · “Riforma” della Chiesa, “rinnovamento”, “ascolto”, “dialogo”, “missione”, “partecipazione”, sono tutti termini che di fatto contraddistinguono l’odierna autocoscienza ecclesiale, quasi da far pensare alla maggior parte delle persone che essi siano effettivamente il frutto dell’attuale scenario socioculturale in cui la Chiesa vive. Eppure ciascuno di questi lemmi, presi sia singolarmente che insieme, si possono già chiaramente ritrovare, in una profonda articolazione teologica, nella prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam, scritta e pubblicata nell’intervallo tra il primo e il secondo periodo del Concilio Vaticano II, ancora prima della promulgazione della Costituzione dogmatica Lumen gentium.
Questa enciclica ha rappresentato il “manifesto” non soltanto del Pontificato di papa Montini, ma anche di quella visione di Chiesa e del mondo (e del rapporto tra loro) che stava pian piano emergendo durante l’assise conciliare. A sessant’anni dalla sua promulgazione (6 agosto 1964), essa continua a rappresentare un chiaro punto di non ritorno nell’autocoscienza ecclesiale e, al tempo stesso, un punto prospettico capace di offrire in modo sempre nuovo ed efficace un orientamento magisteriale, teologico e pastorale alla Chiesa.
Il fare attenzione a non cadere in un significato di “riforma” della Chiesa non corrispondente al vero, spiega ancora Paolo VI, non deve comunque portare a una certa “immobilità” ecclesiale, in quanto la Chiesa è costantemente chiamata a vivere un vero e proprio “aggiornamento”, termine caro a Giovanni XXIII, per esprimere ciò che essa era chiamata a vivere attraverso l’indizione del Concilio Vaticano II.