di Alessandro Clemenzia · Avere ed esprimere un parere non corrisponde a possedere e sviluppare un pensiero. Con questa distinzione del filosofo Silvano Petrosino, in dialogo con Roberto Righetto, nel libro L’essenziale. Globalizzazione della chiacchiera e resistenza della cultura (Lit Edizioni, Roma 2023), si apre una stimolante conversazione tra i due autori, capaci – a partire dalla concretezza della quotidianità – di approfondire in modo critico alcune questioni, tutt’altro che scontate.
Il fenomeno della chiacchiera gode di una certa egemonia nel mondo attuale, costantemente alimentato soprattutto dalla cultura della Rete e dei media, dove si è più preoccupati a reagire e conversare in modo spontaneo, piuttosto che a riflettere, motivando le proprie considerazioni. «L’infondatezza della chiacchiera – ha scritto Martin Heidegger in Essere e tempo – non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, bensì un fattore che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da apprendere».
La chiacchiera, come comunicazione di un parere, per la velocità della sua diffusione e per la quasi totale assenza di fatica da parte di chi la formula, è capace anche di generare un certo godimento in coloro che la praticano; per questa ragione essa non presenta immediatamente una valenza negativa né desta l’attenzione per la gravità delle conseguenze che ne possono derivare. La questione, naturalmente, va affrontata non dentro un sistema moralistico (assunto soprattutto da chi tende a esemplificare il problema, asserendo semplicemente che “non è lecito chiacchierare”), ma andando a fondo nella sua natura, cercando di riconoscere la ragionevole distanza tra il parere e il pensiero. Ma dove si può rintracciare l’origine di tale impoverimento, tanto marcato nell’odierno scenario sociale (e da cui anche la Chiesa, e in particolar modo la così chiamata “riflessione teologica”, non può sentirsi esente)?
Un ruolo essenziale è giocato dall’idea stessa di verità oggi emergente. Scrive Petrosino: «Mi sembra che non si possa negare che oggi, quando si parla di verità, ci si riferisca per lo più, se non esclusivamente, alla verità scientifica […]. I “maestri di verità”, che un tempo erano gli indovini, i poeti, i filosofi, e talvolta perfino i folli, oggi sono gli scienziati, solo gli scienziati […]» (pp. 17-18). Al di là di chi siano oggi i maestri, cosa implica un’idea di verità che coincida con ciò che gli scienziati presentano come vero? È Petrosino stesso a rispondere: «La verità della scienza, la verità scientifica è quella che si identifica con la “certezza” (anche se provvisoria) e di conseguenza con la “sicurezza”» (p. 18).
Esiste, tuttavia, anche un altro modo di comprendere la verità rispetto alla proposta della scienza: un “altro” modo di pensare, dove l’esperimento, che è al centro del lavoro scientifico, non arriva a coincidere con la totalità dell’esperienza umana, e dove la realtà non può essere conosciuta e interpretata unicamente dentro la misura del calcolo. La letteratura, l’arte, la filosofia e, non da ultimo, la teologia mostrano come l’incalcolabile e l’incommensurabile, che hanno a che fare con il mistero, non possano essere censurati dalla concretezza della quotidianità.
Ed è proprio sullo sfondo di un’idea di verità come “certezza”, che la Rete mostra la dinamica del sempre/tutto/subito. Da qui scaturisce l’odierna e sempre più imponente cultura della spontaneità, vissuta come valorizzazione dell’immediato e dell’istante. Secondo Petrosino è proprio questa la logica che deve essere decostruita. «In effetti il ragionare/riflettere […] impone la sospensione della spontaneità ed esige una sorta di arresto, di pausa; non si ragiona e non si riflette se ci si fa prendere dalla spontaneità» (p. 30). E in tal modo l’attenzione viene rivolta al presente, unico tempo che può davvero essere pienamente goduto, ma con un continuo rimando al futuro, luogo quest’ultimo di un ulteriore godimento. Ma il futuro non coincide con l’avvenire. E qui Petrosino spiega in modo molto preciso la differenza tra questi due termini che possono apparire inizialmente sinonimi, ma che in realtà non lo sono affatto: mentre il futuro è legato al presente e può essere in qualche modo pre-visto, pro-gettato e pro-grammato, l’avvenire è precisamente l’opposto, in quanto è il luogo dell’evento, di ciò che accade senza pre-avviso e si presenta sempre come imprevisto. «La nostra società può, sa e soprattutto vuole pensare al di là del presente solo come futuro, e questa sua insistenza sul futuro […] è inversamente proporzionata alla sua incapacità di aprirsi all’avvenire» (pp. 38-39).
In questa riflessione non vi è alcun pessimismo, in quanto l’obiettivo non è quello di lamentarsi, ma di riaccendere il desiderio, prendendo sempre più le distanze da una cultura che pensa esclusivamente, col sorriso, di soddisfare i tanti bisogni. Un primo passo consigliato è proprio quello di fuggire da quella che Petrosino definisce «l’arroganza del pratico» (p. 73), quella di chi pensa che lo studio, il pensare e il riflettere siano soltanto perdite di tempo, rispetto all’efficacia della spontaneità.