Giovanni Battista, l’ultimo dei profeti e il primo dei testimoni

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di Francesco Romano • Il 24 giugno, nella festa di San Giovanni Battista, Firenze celebra il suo Patrono che quest’anno, il 2024, ha coinciso con l’ordinazione episcopale del suo nuovo Arcivescovo Gherardo Gambelli e il suo ingresso come Pastore di questa Arcidiocesi. Lo spunto per una riflessione riassunta nel titolo di questo articolo ci viene offerta da Francesco Carnelutti, eminente e raffinato giurista del secolo scorso, che in una pubblicazione intitolata “Figure del Vangelo, Colloqui di Francesco Carnelutti”, editi da Sansoni nella collana “Quaderni di San Giorgio”, si sofferma a meditare su alcune di esse, tra cui quella di Giovanni Battista.

La storia di Gesù che è la storia della vita terrena di Dio, non è fatta soltanto con i suoi atti e con le sue parole, ma con quelli degli uomini attorno a lui. Il cristianesimo non è soltanto la dottrina di Cristo, ma, insieme, la misura in cui ognuno di noi è capace di comprenderla e praticarla.

Il Carnelutti riflette sulla figura di Giovanni Battista e in lui vede l’uomo che ha riconosciuto Gesù tanto da dirgli “non sei tu che deve essere battezzato da me, ma io devo essere battezzato da te” (Mt, 3, 14), e poi successivamente vedendo passare Gesù, il Battista dice ai suoi discepoli “ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv, 1, 29). Il Battista riconosce Gesù, ma rimane sull’altra sponda, quella dell’Antico Testamento. Infatti la sua figura emerge emblematicamente per il dubbio che lo assale non appena dal carcere sente parlare delle opere di Gesù: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt, 11, 3)

Quindi la domanda che sorge riguardo a Giovanni Battista è se sia l’ultimo dei profeti o il primo dei testimoni? L’uno e l’altro diremmo. Il testimone narra ciò che è stato; il profeta ciò che sarà. L’uno come l’altro è un narratore. La differenza è nell’oggetto della narrazione: passato o futuro.

Ma qual è la differenza tra passato o futuro? Tutto dipende dal vedere. Passato è quello che si vede, perché passa davanti a noi. Futuro è quello che non si vede. Ma non tutti gli uomini hanno la stessa capacità di vedere. Ci sono i miopi e i presbiti, quelli che vedono da vicino o da lontano. E ci sono quelli che sanno e quelli che non sanno. Sapere non è altro se non vedere di là. Tra il medico e il malato, se questi non è medico anche lui, uno non sa quello che sarà domani, l’altro sì, almeno nella maggior parte dei casi. C’è da concludere che il confine tra il passato e il futuro non è il medesimo per tutti gli uomini. Ce ne sono di quelli per i quali è più avanti; per altri è più indietro: I profeti non sono altro che uomini dotati di un più alto sapere.

I sapienti quando negano la profezia, dimenticano che sono dei profeti anche loro. L’astronomia, quando afferma che in un giorno futuro ci sarà una eclissi di sole, non narra un evento futuro? La differenza è solo nella possibilità di critica di un’intuizione mediante il ragionamento. Ma l’intuizione viene prima e il ragionamento viene dopo; e quando il ragionamento, più tardi, qualche volta molto più tardi, collauda l’intuizione, non fa altro che riconoscerne il valore. Non si può dunque, senza peccare contro la stessa ragione e perciò contro la stessa esperienza, negare a priori il valore di un’intuizione perché non è ancora collaudata. Tutto quello che si può, anzi si deve fare, è rimanere in attesa.

Era appunto questo lo stato d’animo degli Ebrei. Aspettavano. Quante volte i profeti non avevano loro annunciato l’arrivo del Messia? Era in fondo ragionevole che gli Ebrei aspettassero. Aspettavano l’esperienza, più che il Messia. Aspettavano ciò che avrebbe loro permesso di credere ai profeti. L’esperienza è ciò che nel Vangelo si chiama adempimento: “Si adempì allora quello che era stato detto dal profeta…” (Mt. 2, 17).

Ora Giovanni a proposito del Messia non dice: verrà; dice è venuto: non dice si adempirà; dice si è adempiuto. Pare dunque un testimone piuttosto che un profeta. Ma, quando dice che è venuto, ancora nessuno lo riconosce. Perciò il suo è piuttosto un annuncio che una narrazione; e in lui sembrano confondersi il testimone e il profeta.

Il ponte fra l’Antico e il Nuovo Testamento è lui. Né potrebbe essere il ponte se il profeta e il testimone non si unissero in lui, il che spiega la parola di Gesù ai messi di Giovanni carcerato: “Perché andaste nel deserto? A vedere un profeta? Sì, io vi dico, è più di un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: ecco io mando il mio messaggero davanti al tuo cospetto, che preparerà la via davanti a te” (Mt, 2, 9-10).

Ora in Giovanni questa unione del testimone e del profeta è qualcosa che merita di essere meglio conosciuto. Meditando si vede come ciò che s’è scoperto sul piano logico si rifletta sul piano psicologico, anzi, ancora e prima sul piano storico. Storicamente Giovanni non solo annuncia, ma riconosce Gesù. È un testimone della venuta, non della vita di Gesù. Sa che colui che battezza nell’acqua del Giordano è il Figlio di Dio, ma non sa come sia il Figlio di Dio. La sua posizione storica si arresta all’ingresso di Gesù nella storia.

Questo non tanto perché un certo tempo dopo Giovanni fu imprigionato da Erode e poi decapitato, quanto perché dopo il battesimo e per il tempo in cui fu libero non risulta che egli abbia seguito Gesù. Secondo il quarto Vangelo, Andrea e Simon Pietro udirono ripetere da lui, mentre vedevano passare Gesù il giorno seguente al battesimo, le parole del riconoscimento: “ecco l’Agnello di Dio” (Gv, 1, 35); ma costoro, non anche Giovanni, seguirono Gesù. Del resto risulta dal medesimo passo del quarto Vangelo che il Battista aveva i suoi discepoli.

Probabilmente per non avere seguito Gesù partecipando alla sua vita e ascoltando l’insegnamento, si spiega l’ambasciata che Giovanni dal carcere gli ha inviato per chiedergli: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt, 11, 3); e questo è il problema del Battista, per non dire la sua aporia; come mai dopo averlo categoricamente riconosciuto, abbia potuto dubitare della sua identità. Cosa mai è accaduto che possa spiegare il suo dubbio?

Più che per non aver partecipato alla vita di Gesù, si capisce il dubbio che a un certo momento assale Giovanni per avere “udito nel carcere parlare delle opere di Gesù”. Quali sono dunque le opere di Gesù che hanno indotto il Battista a dubitare? Egli avrà udito il miracolo del servo del Centurione e le parole rivolte da Gesù all’ufficiale romano; gli avranno raccontato la guarigione della figlia della donna cananea o la lode per la carità del samaritano.

Per un uomo dell’Antico Testamento il dubbio non poteva non nascere: “udiste che fu detto: amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico”, quante volte l’avrà sentito dire Giovanni? Quante volte avrà cantato i salmi della maledizione? Il Salterio è pieno della reverenza dell’uomo verso Dio e della durezza dell’uomo verso l’uomo, soprattutto se nemico.

Anche per il Battista il Cristo dovette essere una sorpresa, se non una delusione, povero dimesso, seguito da un drappello di pescatori e di pubblicani. Poteva essere il Figlio di Dio un maestro che rovesciava a quel modo i fondamenti della visione ebraica del mondo? “Udiste che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt, 5, 44). Come poteva essere l’atteso Messia un maestro che invece insegnava al pastore di lasciare le pecore obbedienti per recarsi in cerca di quella smarrita e trovatala, caricarsela sulle spalle per riportarla all’ovile? Così il figliol prodigo viene accolto con festa nella casa paterna; e novantanove giusti non recano maggiore gioia in cielo quanto un solo peccatore pentito.

Il Salterio invece esprime in tutti i modi il timore che assilla chi prega d’essere confuso con i peccatori e l’istanza di essere separato da loro. Cristo invece siede a banchetto con i pubblicani e con i peccatori e quando la Maddalena sparge su di lui le sue lacrime e il suo profumo, le rivolge le soavi parole: “molto ti sarà perdonato perché hai molto amato” (Lc, 7, 47). Allora Giovanni, uno degli oranti secondo i salmi, non aveva ragione di dubitare?

Il problema di Giovanni è di avere riconosciuto il Figlio di Dio senza conoscere Dio. Non basta dire che Dio è grande, eterno, giusto ecc. Se fosse bastato, Cristo non sarebbe venuto sulla terra per rivelare il volto del Padre “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv, 14, 9). Giovanni sapeva che doveva venire, ha saputo che è venuto, ma non ha capito, non poteva capire il perché. Questo è il suo problema, il suo dramma che esplode nelle angosciose parole: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”.

La grandezza e la miseria di Giovanni è riconosciuta nelle parole di Cristo, dopo che gli inviati del Battista, eseguita l’ambasciata e ricevuta la risposta, se ne erano andati: “In verità vi dico che fra i nati di donna non è certo nessuno più grande di Giovanni Battista (Mt, 11, 11). Non solo egli è l’ultimo, ma il più grande dei profeti proprio perché non è stato soltanto un profeta, ma quel profeta che è stato scelto come testimone della venuta di Cristo. “Eppure”, Cristo ha soggiunto, “il più piccolo del regno dei cieli è maggiore di lui”: il regno dei cieli è l’umanità, come dovrebbe essere se seguisse l’esempio di Gesù. Così è suggellata la superiorità del Nuovo sul Vecchio Testamento; una superiorità fondata sulla fusione del primo con il secondo comandamento della Legge, “in questi due comandamenti si incentra tutta la legge e i profeti” (Mt, 22, 40) e sul precetto dell’ultima ora “amatevi come io vi ho amato” (Gv, 15, 13).

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Francesco Romano

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