Gino Bartali: il campione con le medaglie sull’anima
In quello stesso periodo Gino dimostrò tutto il suo coraggio e la sua generosità anche nascondendo prima nel suo appartamento, poi in una cantina di sua proprietà, i Goldenberg, una famiglia di ebrei fiumani composta dal padre, la madre, una figlia ed un figlio, il piccolo Giorgio.
Non è un caso se tutti questi riconoscimenti siano stati attribuiti a Gino solo dopo la sua morte. Infatti egli quando era in vita non raccontò a nessuno, se non per brevi accenni a qualche familiare, ciò che aveva fatto perché era convinto che “il bene si fa, ma non si dice”.
C’è un altro momento in cui la vita di Bartali s’incrociò con le vicende drammatiche dell’Italia. Era il 14 luglio 1948 e l’allora segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti fu ferito gravemente, con tre colpi di pistola, da un giovane esaltato anticomunista. Il clima politico diventò subito incandescente con manifestazioni e scioperi che si propagarono per tutto il nostro Paese facendo preoccupare il governo per la tenuta dell’ancora debole assetto istituzionale italiano. In quei giorni si stava correndo la trentacinquesima edizione del Tour de France e Bartali ci partecipava, ma aveva un distacco di ventuno minuti dalla maglia gialla, Louison Bobet: un distacco, difficile, quasi impossibile da recuperare, considerato anche il fatto che Gino aveva 34 anni ed era uno dei corridori più anziani della corsa.
La sera dell’attentato a Togliatti il presidente del consiglio Alcide De Gasperi telefonò a Bartali dicendo che in quel momento così difficile l’Italia aveva bisogno di buone notizie. Il campione capì e mise ancora una volta il suo talento di ciclista a servizio degli altri. Nelle due tappe successive recuperò il distacco da Bobet e conquistò la maglia gialla, aprendosi così la strada alla vittoria del suo secondo Tour de France.
È riconosciuto da molti che l’impresa di Bartali, insieme agli appelli di Togliatti dal letto dell’ospedale a mantenere la calma, contribuì a distogliere l’attenzione degli italiani dall’attentato di cui era stato vittima il segretario del PCI ed a placare una tensione politica e sociale che stava portando l’Italia sul baratro della guerra civile.
Al rientro in patria Bartali, in segno di riconoscenza per ciò che aveva fatto, fu ricevuto da Papa Pio XII e dal presidente De Gasperi, un omaggio che dieci anni prima Mussolini non aveva voluto concedergli.
Il campione si ritirò dal ciclismo professionistico nel 1954 anche se continuò ad interessarsi, a vario titolo, al mondo della bicicletta fino alla sua morte avvenuta nel 2000.
Accanto ai ricordi ufficiali di Bartali ne ho anche alcuni personali in cui lo rivedo, ormai come un anziano signore, a camminare, spesso insieme alla moglie, per le strade di Gavinana, il quartiere di Firenze dove entrambi abitavamo.
La statura umana di Ginettaccio è un prezioso monito anche per i nostri tempi, in particolare per le nuove generazioni. Egli c’insegna l’importanza di fare bene il proprio dovere, lì dove si è, di sapersi schierare nei momenti difficili dalla parte giusta che significa difendere i più deboli. Bartali è un esempio di determinazione, altruismo e coraggio, il coraggio di essere capaci di andare controcorrente, anzi contromano, sfidando la mentalità dominante.
Infine a quanti pensano che ciò che conta nella vita sia solo fare soldi, Bartali ci ricorda (ancora una volta sono sue parole) che «l’ultimo vestito è senza tasche». Sarà anche per questo che per essere sepolto non volle che gli fosse messa una delle tante maglie con cui aveva vinto importanti competizioni sportive, ma solo lo scapolare bianco dei terziari carmelitani di cui faceva parte: una sorta di semplice tunica bianca, senza tasche appunto.