Genio musicale e mondo interiore di Giacomo Puccini

200 294 Antonio Lovascio
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di Antonio Lovascio · Lui stesso si definiva un “birbante”, per la sua vita spericolata, intensamente vissuta fino alla fine. Amori e avventure che hanno ispirato alcune sue opere, come emerge dalla biografia-romanzo appena pubblicato da Rossella Martina (“Giacomo Puccini gloria e tormento”, pagine 466, euro 17, edito da DreamBook) che ha svelato inediti segreti spulciando negli archivi che tra Lucca e la Versilia custodiscono oltre diecimila lettere. Ma le celebrazioni del primo centenario della scomparsa del grande compositore (ricorre il 29 novembre) dovrebbero allargare l’orizzonte e studiare altri aspetti abbastanza trascurati della sua complessa personalità. A partire dalle tracce di religiosità nelle sue opere se non dal suo rapporto con la Fede, dalla non nascosta amicizia con molti ecclesiastici, ed in particolare con don Pietro Panichelli, il “pretino di Pietrasanta”, “pazzo per la musica e i musicisti”, appartenente all’ordine domenicano, e con monsignor Dante del Fiorentino, giovane cappellano a Torre del Lago e poi prete di frontiera in America. Forse proprio grazie a queste frequentazioni Puccini maturò la convinzione che “tutta l’arte potesse portare a Dio”. Di questo parlava prima di lasciarci il giornalista Oriano De Ranieri nel suo documentato saggio La religiosità in Puccini (Zecchini editore), frutto di una laboriosa ricerca condotta per la tesi di laurea all’Istituto Stenone di Pisa, appoggiata caldamente dal relatore don Piero Ciardella.

Certo, come ha scritto “Avvenire”, è inutile fare facili agiografie, Puccini non fu un fervente cattolico, ma ebbe sempre un forte spirito cristiano, come ha testimoniato la nipote Simonetta, unica erede essendo figlia di Antonio, a sua volta unico figlio di Giacomo. La sua era una famiglia benestante e molto unita, che vantava musicisti da cinque generazioni, ed era profondamente religiosa. Devotissima era la madre Albina. Purtroppo il padre (Michele) è morto molto presto; Giacomo aveva solo cinque anni, era il maggiore dei figli, due maschi e sei femmine. Albina, donna dinamica, li ha allevati per bene facendoli studiare tutti. Aveva il presentimento che Giacomo sarebbe diventato famoso e lo ha fatto studiare a Lucca: come si usava a quei tempi, nei seminari degli Istituti religiosi annessi alle chiese, San Michele prima e San Martino poi. Non era possibile mandare Giacomo a completare la sua formazione culturale e musicale in una grande città, come avrebbe voluto. Allora sua madre, donna di ingegno, contattò la dama di Corte della regina Margherita di Savoia, che si trovava a Lucca, affinchè concedesse una borsa di studio di 100 lire al mese, per un anno al Conservatorio Verdì di Milano, dove poi si è diplomato. La regina acconsentì. Lì, nel capoluogo lombardo, ha composto le prime opere, a partire dal 1880.

Oltre ad Albina un ruolo importante nel far lievitare la sensibilità religiosa in Puccini l’ha avuto sicuramente la sorella più amata, Iginia, monaca di clausura col nome di Giulia Enrichetta dopo aver vissuto fin dalla prima giovinezza nel convento agostiniano di Vicopelago, quasi un vanto per la famiglia quando è diventata superiora. Giacomo aveva un permesso speciale della Curia per andare a trovare la sua guida spirituale. Il convento ispirò in lui “Suor Angelica”, che si svolge appunto in un monastero.

Suor Angelica” è sicuramente l’opera in cui più traspare il rapporto del Maestro con la Fede, ma tante altre composizioni pucciniane hanno spunti religiosi. Basti pensare a “La Fanciulla del West” e alla via di redenzione per Dick Johnson, l’uomo amato da Minnie. Oppure alla mistica intensa della “Messa a quattro voci con orchestra” (composta da giovane prima di lasciare Lucca) ed al “Requiem” ideato nel quarto anniversario della morte di Verdi.

E scorrendo più avanti con gli anni, come non sottolineare che negli ultimi giorni di vita (è morto a 66 anni, il 29 novembre 1924 a Bruxelles, dove fu ricoverato per operarsi alla gola) Puccini si accostò ai sacramenti, impartiti dall’allora nunzio apostolico, poi cardinale, Clemente Micara ? Fu lo stesso porporato a confermarlo: “Si era insinuata in lui una serena rassegnazione alla volontà divina…Puccini mi si è rivelato un uomo di sentimenti molto alti e nobili. […] Recai al maestro ogni conforto religioso ed egli ne fu cosciente e confortato. Fu il suo ultimo segno di intelligenza. Entrò in agonia subito dopo…”.

Il genio dell’artista si era appena congedato con la Turandot. Che l’amore di Liù possa leggersi in chiave non puramente terrena, ce lo suggerisce anche la riflessione di Papa Francesco, in un passo dell’intervista rilasciata al direttore de “La Civiltà Cattolica” nel 2013, quando, per presentare un esempio di speranza, ricorda la descrizione che ne viene data in questa opera e che rappresenta il primo enigma che Turandot sottopone a Calaf: “Nella cupa notte vola un fantasma iridescente. / Sale e spiega l’ale / sulla nera infinita umanità. / Tutto il mondo l’invoca / e tutto il mondo l’implora. / Ma il fantasma sparisce con l’aurora / per rinascere nel cuore. / Ed ogni notte nasce / ed ogni giorno muore!”.

Insomma, come ci ha ricordato Oriano De Ranieri, nelle opere scritte da Giacomo Puccini si coglie la religiosità fondata per lo più sulle pratiche devozionali come si usava tra Ottocento e Novecento, ma s’intravede anche un modo di sentire moderno che cerca un contatto diretto con Dio che sa capire e perdonare: non a caso il Maestro studiava la Bibbia e ne raccomandava la lettura alla sorella Ramelde. Infine Puccini fu anticipatore della via della bellezza, appunto la via “pulchritudinis” che conduce a Dio tanto cara a Benedetto XVI.

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Antonio Lovascio

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