Franco Basaglia e «Morire di classe»: molto più di un libro di fotografie
di Stefano Liccioli · Nell’anno che si sta per chiudere è stato celebrato il centesimo anniversario della nascita di Franco Basaglia, lo psichiatra che con il suo approccio innovativo al trattamento della salute mentale ha ispirato la Legge 180/1978 che ha portato la revisione ordinamentale degli ospedali psichiatrici in Italia.
Sarà stato proprio questo importante anniversario a incoraggiare la casa editrice “Il Saggiatore” a ripubblicare il libro fotografico “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin” edito per la prima volta da Einaudi nel 1969 e che da tempo non era più disponibile nelle librerie. Si tratta di una fonte storica importante soprattutto per far conoscere alle nuove generazioni «la condizione dei malati mentali prima della rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e di tutte le donne e gli uomini che insieme a loro hanno operato per scardinare quel sistema», così come si legge nell’introduzione del testo.
L’idea di una documentazione fotografica della situazione degli ospedali psichiatrici italiani era stata proprio di Franco Basaglia che, per effettuare il lavoro, si rivolse alla fotografa Carla Cerati. Fu quest’ultima a coinvolgere, a sua volta, Gianni Berengo Gardin in un’operazione che li avrebbe portati a visitare quattro ospedali: quello di Gorizia (la struttura diretta da Basaglia), di Colorno (vicino a Parma), di Firenze e di Ferrara. Non in tutte queste realtà i due fotografi riuscirono a fare gli scatti che volevano a causa dei vincoli che imposero loro le varie direzioni. Ovviamente Basaglia per quanto di sua competenza fu molto disponibile nei confronti di Cerati e Berengo Gardin, ma l’esperienza di Gorizia era per l’epoca un caso unico nel panorama psichiatrico italiano in termini di libertà per i pazienti.
Se è vero che non era la prima volta che dei fotografi ritraevano la vita all’interno degli ospedali psichiatrici italiani (basti pensare che sempre nel 1969 fu pubblicato il ciclo di fotografie, dal titolo “Gli esclusi”, realizzato da Luciano D’Alessandro nell’ospedale di Nocera Superiore, con la collaborazione dello psichiatra Sergio Piro), è altrettanto vero che “Morire di classe” rappresenta un pilastro del progetto basagliano di denuncia dell’approccio tradizionale alla salute mentale insieme al suo libro “L’istituzione negata” (1969). A completare il quadro offerto da questo due opere vale la pena menzionare il documentario televisivo di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” uscito sempre nel 1969 che offrì uno spaccato sulla realtà dell’ospedale di Gorizia e sul lavoro che qui conduceva lo psichiatra veneto.
Gli scatti di Cerati e Berengo Gardin (anche se non si sa quali siano dell’una e quali dell’altro, forse per sottolineare la centralità del soggetto ritratto piuttosto di chi li ritrae) hanno un chiaro intento politico e sociologico. Allo stesso modo non si sa a quale manicomio appartengano le immagini probabilmente per focalizzare l’attenzione del lettore/spettatore sulla problematicità intrinseca all’istituzione manicomiale piuttosto che sulle criticità di una o dell’altra realtà in particolare.
I corpi e i volti dei pazienti fotografati, gli ambienti in cui si trovano restituiscono quel clima oppressivo di cui erano vittime. Le immagini sono accompagnate da frasi tratte da testi di, tra gli altri, Erving Goffman, Luigi Pirandello, Michel Foucault, Primo Levi, Jonathan Swift, Rainer Maria Rilke: non sono mere citazioni, ma sembrano offrire al lettore/spettatore una prospettiva concettuale con cui interpretare le varie fotografie.
Lo sguardo di Cerati e Berengo Gardin si accosta con discrezione ai soggetti che ritrae, evitando un approccio paternalistico e una curiosità fine a se stessa.
Il libro ha un’introduzione scritta da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia che fornisce, a mio avviso, l’obiettivo di “Morire di classe”:«È necessario che l‘esterno riconosca come proprio l’ospedale psichiatrico, dimostrando un legame e un interesse reciproco fra l’istituzione che riabilita e la società che vuole i suoi membri riabilitati, instaurando cioé una comunicazione reale che non può fondarsi che sulla reciprocità di interessei dei due poli della relazione. […] Resa palese la natura esclusoria dell’istituzione psichiatrica tradizionale attraverso l’abbozzo di una nuova possibile dimensione terapeutica, è l‘esterno a determinare fino a che punto sia disposto ad accettare la comunicazione appena aperta».
A distanza di cento anni dalla nascita di Basaglia e di quarantesei dalla promulgazione della legge che porta il suo nome dobbiamo chiederci se la rivoluzione da lui iniziata sia stata effettivamente completata. Un dubbio che egli stesso si pone sempre nell’introduzione:«Se la reciprocità del rapporto fra luogo di cura e società esterna non è data come acquisita, non si sarà mai sicuri che le mura, i cancelli, la violenza, una volta eliminati dall’istituzione psichiatrica, non tornino a proporsi – anche sotto forme apparentemente diverse – riconfermando l’impossiblità di una riabilitazione reale».
A mio avviso occorre infatti domandarci se le persone malate di mente continuano ancora oggi ad essere strette con catene che non sono fisiche, ma assumono, per esempio, la forma dell’abuso di psicofarmaci. Ma soprattutto dobbiamo chiederci quali siano i muri che tuttora recludono nella nostra società coloro che non ce la fanno a stare al passo degli altri e cosa fa ognuno di noi nel concreto per abbattere questi muri.
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