«Dilexit nos». L’enciclica sull’amore che si esprime nel cuore di Gesù

di Francesco Vermigli · In che senso il cuore può rappresentare l’amore che si dona in pienezza? E poi… che posto ha il cuore nell’antropologia moderna? A queste e ad altre domande prova a rispondere il papa in un recentissimo documento; ma lo fa invitando a guardare a Gesù: a quello che possiamo imparare da lui, dal suo modo di amare, dal suo stile di vita, dalla sua prossimità e dai suoi gesti nei confronti dei piccoli. In breve, domandarsi che senso abbia parlare oggi del cuore che ama, significa volgere il proprio sguardo e la propria preghiera al Cuore di Gesù, Figlio di Dio incarnato per la salvezza del mondo.

Il 24 ottobre scorso è stata infatti pubblicata la quarta enciclica di papa Francesco, dedicata all’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo. La cosa pone già di per sé l’enciclica all’interno di una lunga tradizione ad un tempo devozionale e teologica: qui non possono non ricorrere i nomi – diversissimi – di Margherita Maria Alacoque, Claudio de La Colombière, Francesco di Sales, Teresa di Lisieux, Karl Rahner, Pio XII e la sua Haurietis aquas… per non parlare degli antecedenti patristici e medievali che hanno colto nel cuore di Gesù, qualcosa che ben poteva rappresentare il suo amore per noi.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, pare opportuno in breve presentare di questa enciclica la struttura. Ad una prima parte dedicata a rilevare la centralità del cuore per una corretta antropologia, con l’invito a ritornare al cuore, come origine di un reale cambiamento del mondo (I. L’importanza del cuore), seguono due sezioni dedicate più direttamente alla persona di Gesù, a colui, cioè, che ama con il proprio cuore: un amore che si fa presente con gesti concreti (II. Gesti e parole d’amore), ma che sono, appunto, espressione nel mondo di un cuore che arde di amore per la nostra salvezza (III. Questo è il cuore che ha tanto amato). Infine, altre due sezioni concludono l’enciclica: una sezione dedicata all’importanza del culto al Sacro Cuore per l’esperienza spirituale personale (IV. L’amore che dà da bere) e, infine, l’ultima parte – subito prima di alcune brevi conclusioni – che ha il rimando agli effetti sociali del culto al Cuore di colui che ama l’uomo di un amore inaudito (V. Amore per amore).

Proviamo ora ad imbastire alcune considerazioni di maggiore momento sul contenuto dell’enciclica; con uno sguardo rivolto in particolare a quei passaggi che maggiormente riescono a rilevare dinamiche fondamentali della vita spirituale e quelli che paiono contraddistinti da una maggiore portata teologica.

Sulla prima questione, alcuni passi sono degni di nota. Laddove si insiste nel rilevare come l’amore sia una fonte di conoscenza privilegiata – perché «questa forza unica del cuore ci aiuta a capire perché si dice che quando si coglie una realtà con il cuore si può conoscerla meglio e più pienamente» (n. 16) – ci ritorna in mente una formula di Gregorio Magno: amor ipse notitia est. L’amore fa conoscere e – secondo un circolo virtuoso – ciò che ho conosciuto, viene amato da me ancora di più. Parlare, poi, del cuore come fonte di conoscenza significa rivalutare quegli aspetti affettivi della vita spirituale che – fino dalle origini del culto al Sacro Cuore di Gesù – si sono posti come un messaggio esplicito contro l’elitarismo e l’algido purismo del giansenismo (cf. nn. 84-87). In quest’ambito, rilevante è anche che il papa gesuita rimandi questa dimensione affettiva della vita spirituale all’insegnamento ignaziano: «Michel de Certeau evidenzia come le “mozioni” di cui parla Sant’Ignazio siano le irruzioni di una volontà di Dio e di una volontà del proprio cuore che rimane diversa rispetto all’ordine manifesto. Qualcosa di inaspettato comincia a parlare nel cuore della persona» (n. 24).

Veniamo ai luoghi teologici più densi. Bella è l’evocazione di un passaggio capitale della teologia paolina, quella consacrata dal versetto: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Così il papa: «Tutto questo, a uno sguardo superficiale, può sembrare mero romanticismo religioso. Tuttavia, è la cosa più seria e più decisiva. Trova la sua massima espressione in Cristo inchiodato ad una croce. È la parola d’amore più eloquente» (n. 46). È per questo, dice il papa, che quando scopriamo che il nostro amore è incerto e instabile e il nostro cuore è infedele, proprio allora dobbiamo andare alla fonte del vero amore: «Andiamo al Cuore di Cristo, il centro del suo essere, che è una fornace ardente di amore divino e umano ed è la massima pienezza che possa raggiungere l’essere umano. È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare» (n. 30).

L’enciclica – di cui si apprezza l’ampia elencazione di fonti e anche l’invito al recupero del senso sociale della riparazione come espressione del culto al Sacro Cuore – si mostra poco preoccupata di fornirci un’interpretazione di come sia possibile che stiano insieme in quel Cuore di Gesù l’amore umano e l’amore divino, come viene detto nel sottotitolo. Forse un più esplicito richiamo alla scelta kenotica di Dio – per cui l’amore divino accade e si esprime nei limiti dell’umano – avrebbe dato maggiore profondità ad alcuni passaggi: qualcosa del genere si trova però al n. 60 e al n. 67.

L’enciclica ci pare sia un contributo ulteriore all’accentuazione del pontificato di Francesco nel senso della contemplazione orante e grata della misericordia di Dio, del suo amore gratuito e debordante. Per ora basti tornare, secondo l’invito del papa, ad abbeverarsi a quel Cuore: “simbolo reale” – direbbe Rahner – dell’amore misericordioso di Dio per noi. «Da’ un’anima che ami e comprenderà quello che dico», dice Agostino, citato al n. 155. Non resta che provare…