di Gianni Cioli · “Deriva da questa illuminata ed operante coscienza uno spontaneo desiderio di confrontare l’immagine ideale della Chiesa, quale Cristo vide, volle e amò, come sua sposa santa e immacolata e il volto reale, quale oggi si presenta, fedele, per grazia divina ai lineamenti che il suo divin fondatore le impresse […]; ma non mai abbastanza perfetto, abbastanza venusto, abbastanza santo e luminoso, come quel divin concetto informatore lo vorrebbe” (Ecclesiam suam, AAS 56 [1964] 612; EV II, 167).
È questa una delle affermazioni più centrali e significative della “Ecclesiam suam” di Paolo VI del 6 agosto 1964.
Come è noto, la prima enciclica di Paolo VI, non ha inteso dare indicazioni di carattere dottrinale (che in quel determinato momento competevano alla Costituzione dogmatica sulla Chiesa, che il Concilio stava elaborando) ma ha voluto offrire alla Chiesa stessa un’esortazione a vivere il kairos del Concilio, attraverso una ritrovata e più profonda coscienza di sé, un conseguente rinnovamento ed una nuova disponibilità al dialogo.
Fra le fonti teologiche che hanno permesso al Papa di elaborare tale parenesi si devono certamente ascrivere autori coetanei di Montini, come Journet, de Lubac e Congar, da lui molto stimati e costantemente frequentati già dagli anni giovanili. Un ruolo di grande rilievo, nella ispirazione dell’impianto della “Ecclesiam suam” in particolare e del pensiero montiniano in generale, andrebbe tuttavia riconosciuto anche alle idee suggestive offerte da Vito Fornari (1821-1900), prete scrittore, teologo e filosofo del secolo XIX, nella sua opera, “Della vita di Gesù Cristo libri tre” (prima edizione: Firenze 1869-93).
Autore, certo, “inconsueto” per la letteratura teologica a noi contemporanea, ma ben conosciuto ed apprezzato da Papa Montini, Fornari era riuscito ad elaborare una vera e propria teologia della storia in chiave cristologica, assumendo criticamente elementi della filosofia platonica. Gli spunti più interessanti per comprendere la possibile influenza di Fornari sul pensiero di Paolo VI si possono ravvisare soprattutto nell’ambito ecclesiologico. Più esattamente nel rapporto fra cristologia ed ecclesiologia.
Fornari concepisce, infatti, la Chiesa come “una confessione viva e perenne della morte e della risurrezione di Gesù”, che “attestando la morte e il risorgimento di Cristo, i quali due fatti palesano, l’uno la verità della sua natura umana, e l’altro della sua natura divina, afferma con questa testimonianza l’unione delle due nature, ed esprime la propria coscienza di Lui, nella quale coscienza la misteriosa unione fu fatta e consumata”. Partendo da questa premessa, Fornari giunge, con espressione inusitata ma di indubbio effetto, a definire la Chiesa come “una frase della coscienza di Cristo, una frase i cui elementi sono persone e operazioni umane” (V. Fornari, Della vita di Gesù Cristo. II, Torino 51949, 570-572).
La Chiesa è l’impronta della persona di Cristo “fatta e rimasta immortale in vivente materia, cioè in umane persone”. Tale materia, osserva Fornari con un’immaginosa espressione che ricorda da vicino quanto poi affermerà Paolo VI nella “Ecclesiama suam”, dovrebbe “esser oro tutta, oro fino, puro, brillantante, me se anco è argilla ed impura argilla, la forma non si muta, né viene mai violata la verginale bellezza interna di lei” (ibid., 572).
La coscienza di Cristo è “il materno seno” in cui sono rigenerati i battezzati. Questa suggestiva prospettiva può forse gettare una certa luce sulla venatura di “esemplarismo” che appare nella “Ecclesiam suam” quando Paolo VI fa riferimento alla Chiesa “perfetta nella sua concezione ideale, nel pensiero divino […], quale Cristo la vuole […], tutta rivolta verso la perfezione alla quale Egli l’ha chiamata e abilitata” (Ecclesiam suam, AAS 56 [1964], 626; EV II, 180).
C’è un passo di Fornari che merita di essere considerato con attenzione: “Nel primo istante della sua esistenza Cristo pensò, abbracciò nella divina coscienza la progenie di Adamo, dalla quale in quell’istante Esso emergeva per una delle due nature. La pensò quale Iddio l’aveva fatta, quale a Lui piaceva che fosse, quale vedeva che essa non era più ormai. Così Egli pensò la generazione di Adamo; la pensò risanata dalla corruzione, ristorata nel suo essere originale, innalzata là dove voleva l’amor suo, che la voleva simile a Lui, com’è proprio dell’amore. Tale nella coscienza di Cristo fu l’umana progenie; tale il pensiero di essa in Lui. E poiché è proprio del pensiero il chiamare se stesso, cioè proprio del pensante il chiamare il suo pensiero, Cristo chiama quel suo pensiero, chiama l’umana generazione quale essa diviene nella coscienza di Lui” (Fornari, Della vita di Gesù Cristo, 572-573).
Cristologia, ecclesiologia ed antropologia si congiungono in questa visione che raggiunge un effetto, per così dire, estetico: nell’uomo Cristo Gesù, nella sua coscienza divino-umana, il pensiero di Dio sull’uomo prende forma storica e diventa polo di attrazione per tutta la progenie di Adamo, per l’umanità chiamata a ritrovare il suo autentico senso, la sua genuina vocazione originaria.
La Chiesa è l’umanità chiamata, che prende forma storica in ogni concreto esistente umano che si lasci attirare dall’amore di Cristo per diventare frase della coscienza di Lui – cioè, atto chiamante – “depositaria e veicolo del suo amore”.
Si può cogliere in Fornari una sorta di esemplarità discendente che deve attuarsi dinamicamente, per gradi: Cristo è modello della singola anima tramite la Chiesa che è “forma di Cristo”. Alla luce del mistero pasquale si delineano la dinamica e il concreto contenuto di quest’esemplarità. Nel battesimo, osserva Fornari facendo riferimento al sesto capitolo della Lettera ai Romani e al secondo di quella ai Colossesi, le singole anime sono disgiunte da loro stesse, cioè, “dalla loro guasta natura e dalla condanna che le colpiva”. Esse dunque muoiono, in un certo senso. Ma “nell’atto e per l’atto medesimo” della loro separazione da se stesse, le medesime anime vengono introdotte nella vita divina, “nella vita che Cristo sprigionò da sé nella risurrezione”. Secondo Fornari è importante ricordare, dunque, che la santificazione “imprime nelle anime due moti congiuntamente, o più tosto la legge di due moti, uno di morte e uno di risurrezione, immagini o riverberi, o più tosto ripetizioni della morte e della risurrezione di Gesù”. Il mistero pasquale costituisce il “carattere interno” della società ecclesiale: “ella è un vivente testimone, una confessione viva e perenne della morte e della risurrezione”; ed è “il proprio carattere di lei” che nel battesimo viene “improntato in ciascuna delle anime convertite” (Ibid., 570).
Fin dal giorno di Pentecoste l’assemblea dei discepoli del Signore ha reso testimonianza della “risurrezione del crocifisso”. “L’immagine della persona crocifissa e risorta” è stata impressa nelle anime dei discepoli; essa è divenuta il “carattere proprio” della Chiesa ed compito della Chiesa stessa “riprodurla nelle anime” (Ibid., 568).
Paolo VI fa, nella “Ecclesiam suam”, a sua volta, riferimento all’idea di una Chiesa santa nel pensiero divino, quale fondamento di quella permanente tensione alla santità che deve caratterizzare la vita della Chiesa stessa nella sua fase storica.
Quello di Paolo VI – è importante sottolinearlo, e qui sono illuminanti gli elementi di convergenza con la teologia di Fornari – non è un pensiero astorico, semplicemente riferito a un archetipo atemporale. La Chiesa viene sì colta nella sua verità più profonda come un’idea divina, ma nel pensiero di Cristo; cioè in quella coscienza umano-divina attraverso la quale l’umanità ha iniziato a pulsare nella storia, di vita nuova.
La “concezione ideale” della Chiesa trova la sua radice nella coscienza “storica” di Cristo. L’archetipo dell’umanità rinnovata deve, cioè, essere considerato nell’autocoscienza emersa dall’umanità di Cristo e delineatasi nella sua concreta vicenda storica. In altre parole, è Cristo nel suo mistero e nella sua singolare vicenda storica umano-divina che, per Paolo VI, diventa il modello della Chiesa e, nella Chiesa e per la Chiesa, il modello di ogni singola anima.
L’interpretazione della morale come sequela Christi trova in queste premesse un fondamento evidente.
Se la Chiesa nella sua concezione ideale va colta nel pensiero di Cristo la concezione ideale della Chiesa non potrà allora prescindere da quella dimensione pasquale che ha costituito l’asse portante della vicenda storica in cui la coscienza di Cristo si è delineata. Non semplicemente il Verbo incarnato risulta esemplare dell’umanità chiamata, della Chiesa, ma il Verbo incarnato in questa storia, in questa economia di redenzione costitutivamente segnata dal mistero pasquale.
Se il mistero pasquale diventa illuminante, in questa prospettiva, per cogliere l’essenza della Chiesa, pare pure possibile vedere proprio nel mistero della morte e risurrezione del Signore il nesso profondo fra la missione ecclesiale e l’agire morale del cristiano. Il senso della Chiesa, per dirla con Fornari, è quello di essere “un vivente testimone, una confessione viva della morte e della risurrezione di Gesù” (Fornari, Della vita di Gesù Cristo, 570). L’agire morale del cristiano potrà inserirsi nel senso della Chiesa nella misura in cui saprà essere “improntato” al mistero della Pasqua del Signore, cioè all’orientamento della concreta vicenda umano-divina di Gesù Cristo. Attraverso di essa si è realizzata, di fatto, la salvezza. È nella Chiesa che la salvezza deve attualizzarsi, per compiersi nella vita di ogni singolo che voglia accoglierla.