Chiesa sinodale in missione. I «fondamenti» dell’«Instrumentum laboris» per la Seconda Sessione del Sinodo dei Vescovi

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di Alessandro Clemenzia · Come essere Chiesa sinodale in missione? Con questa domanda si apre l’Instrumentum laboris per la Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2024). Il Documento non si limita a dare una risposta plausibile a tale domanda, ma sottolinea quei “fondamenti” capaci di sostenere tale visione di Chiesa. Ed è proprio su di essi che soffermeremo l’attenzione. Nella parte introduttiva è affermato: «In Cristo, luce di tutte le genti, siamo un unico Popolo di Dio, chiamato a essere segno e strumento dell’unione con Dio e dell’unità del genere umano». È evidente il richiamo al primo numero della Costituzione dogmatica Lumen gentium del Vaticano II, in cui emerge un evidente cristocentrismo: è Cristo, infatti, la vera luce delle genti, non la Chiesa; ed è proprio a partire dall’assunzione di tale decentramento ecclesiale e ricentramento cristologico che la Chiesa si scopre “unico” Popolo di Dio, sempre in relazione a tutta l’umanità. Ancora di più: la Chiesa, se è e rimane in Cristo, è sia “segno” che “strumento” dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.

Dopo questo recupero del primo numero della Lumen gentium, il Documento articola la riflessione a partire dal primo “fondamento”, vale a dire la Chiesa Popolo di Dio, sacramento di unità.

L’identità mistica, dinamica e comunitaria del Popolo di Dio (cfr. n. 1) scaturisce dal sacramento del battesimo, attraverso il quale Dio agisce nella storia, santificando e salvando ogni uomo e donna «non in modo separato e senza alcun legame fra di loro, ma ha voluto costituirli in un Popolo che lo riconoscesse nella verità e lo servisse nella santità» (LG 9). La Chiesa, dunque, è prima di tutto il luogo attraverso cui Dio realizza la salvezza. Si può rintracciare nuovamente un decentramento a cui la Chiesa è chiamata, in quanto l’azione di grazia, pur passando attraverso di essa, proviene sempre e soltanto da Dio. «La sinodalità è radicata in questa visione dinamica di Popolo di Dio con una vocazione universale alla santità e alla missione, in pellegrinaggio verso il Padre sulle orme di Gesù Cristo e animato dallo Spirito Santo» (n. 2). L’identità della Chiesa, in questo modo, è fortemente riversata sull’Io di Dio. In quanto Popolo di Dio, spiega ancora il Documento, essa «non è mai la somma dei Battezzati, ma il “noi” della Chiesa, soggetto comunitario e storico della sinodalità e della missione, perché tutti possano ricevere la salvezza preparata da Dio» (n. 3). Al contrario di ogni interpretazione meramente sociologica della Chiesa, quest’ultima non è il prodotto della somma di tutti coloro che la compongono, ma è un autentico soggetto collettivo, appunto un noi che trova nell’Io di Dio la sua ontologica condizione di possibilità.

Non esiste immagine più efficace per esprimere questa dinamica della “luna”, e in particolare di quel mysterium lunae presentato dai Padri della Chiesa. E proprio questa l’immagine recuperata dal Documento: «Come la luna, la Chiesa brilla di luce riflessa: non può quindi intendere la propria missione in senso autoreferenziale, ma riceve la responsabilità di essere il sacramento dei legami, delle relazioni e della comunione in vista dell’unità di tutto il genere umano, anche nel nostro tempo così dominato dalla crisi della partecipazione, cioè del sentirsi parte di un destino comune, e da una concezione troppo spesso individualista della felicità e quindi della salvezza» (n. 4). La Chiesa, in altre parole, è realmente se stessa soltanto nel suo essere “in Cristo”, proiettata verso tutto il genere umano: «Se così non fosse, smarrirebbe il suo essere, in Cristo, “come sacramento” (cfr. LG 1) e dunque la propria identità e ragion d’essere» (n. 4).

In questa visione teologica, il Documento introduce il tema della sinodalità, da anni al centro del dibattito ecclesiale ed ecclesiologico: «I termini sinodalità e sinodale, derivati dall’antica e costante pratica ecclesiale del radunarsi in sinodo, grazie all’esperienza degli ultimi anni sono stati maggiormente compresi e più ancora vissuti. Sempre più essi sono stati associati al “desiderio di una Chiesa più vicina alle persone, meno burocratica e più relazionale” (RdS 1b), che sia casa e famiglia di Dio» (n. 5). È dunque quanto affermato in precedenza a proposito di un effettivo decentramento ecclesiale e di un evidente ricentramento cristologico, che si può argomentare il termine sinodalità. Con esso non si intende un semplice ammodernamento delle strutture gerarchiche o degli apparati burocratici della Chiesa, ma si ha a che fare con una visione relazionale della comunità ecclesiale (sempre in riferimento a Dio e al genere umano).

Certamente la sinodalità, spiega ancora il Documento, vede anche il riunirsi in assemblea del Popolo di Dio, ma il fine rimane sempre quello di essere «espressione del rendersi presente di Cristo vivo nello Spirito» (RdS 1h). Non è, dunque, una questione di governo o di leadership, ma di inverare il rendersi presente di Cristo “tra” coloro che sono riuniti nel Suo nome. In altre parole: la sinodalità è la dinamica attraverso cui Cristo stesso si rende contemporaneo ad ogni uomo e ad ogni donna, presentandosi come un vero e proprio “evento liturgico”. Per questa ragione il termine “sinodalità” è strettamente legato al termine comunione, termine che condensa la logica sottostante all’insegnamento del Concilio Vaticano II: «Nel suo riferirsi alla realtà della Chiesa, la categoria di sinodalità non si pone come alternativa a quella di comunione. Infatti, nel contesto dell’ecclesiologia del Popolo di Dio illustrata dal Concilio Vaticano II, il concetto di comunione esprime la sostanza profonda del mistero e della missione della Chiesa, che ha nella celebrazione dell’Eucaristia la sua fonte e il suo culmine, ossia l’unione con Dio Trinità e l’unità tra le persone umane che si realizza in Cristo mediante lo Spirito Santo» (n. 7).

Proprio perché la sinodalità è comunione, essa non chiede l’annientamento della distinzione, ma anzi ne è in qualche modo la valorizzazione. Per questa ragione è necessario tenere conto dei differenti contesti che vanno a incidere, fino anche a caratterizzare, le Chiese locali; infatti «non c’è missione senza contesto, ossia senza una chiara consapevolezza che il dono del Vangelo è offerto a persone e comunità che vivono in tempi e luoghi particolari, non chiusi in sé stessi ma portatori di storie che vanno riconosciute, rispettate, invitate ad aprirsi a più ampi orizzonti» (n. 11). Il rinnovamento sinodale è chiamato a tenere conto dell’universalità della Chiesa, per cui alcune spinte che giungono da parte di alcune Chiese locali, che vivono dentro una determinata cultura, potrebbero non trovare corrispondenza da parte di altre Chiese, situate in tutt’altri contesti.

A prescindere dalle culture in cui le Chiese locali sono immerse, è necessario, a livello di Chiesa universale, operare un vero e proprio cambiamento di mentalità su alcune questioni particolari: «Una conversione a una visione di relazionalità, interdipendenza e reciprocità tra donne e uomini, che sono sorelle e fratelli in Cristo, in vista della comune missione» (n. 14) e una profonda renovatio interiore, per «ripensare il modo di vivere personale e comunitario e lasciarsi trasformare dallo Spirito» (n. 19).

I “fondamenti” di questo Documento rappresentano un ottimo punto di partenza e di convergenza per aprire i lavori del Sinodo: attraverso un autentico decentramento ecclesiale e un ricentramento su Cristo, la Chiesa potrà davvero scoprire la bellezza del suo servizio all’umanità. La bellezza della missione.

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