“C’è ancora domani”. Sì, ma quale domani?

La Festa della Repubblica di quest’anno ha avuto, nei mesi scorsi, un prodromo cinematografico di grande successo con il film “C’è ancora domani”, opera prima come regista di Paola Cortellesi. L’ambientazione è infatti nella Roma del 1946, alla vigilia del referendum monarchia/repubblica aperto, per la prima volta, anche al voto delle donne. E protagonista del film è proprio una donna, Delia, interpretata dalla Cortellesi, vessata in ogni contesto in cui si trova da un uomo di turno: il marito violento (Ivano) che la picchia continuamente, il suocero che, nonostante sia allettato, la tiranneggia, i due figli maschi pestiferi, il datore di lavoro che la sfrutta e la sottopaga in quanto donna. L’obiettivo della sceneggiatura è denunciare quella cultura patriarcale che allora come oggi continua ad opprimere le donne, anche se, aggiungo io, nel tempo ci sono stati dei progressi, l’emancipazione femminile fortunatamente è diventata una realtà, almeno nel nostro mondo occidentale.

La condivisibile denuncia del film si presta però, più o meno volontariamente, a delle estremizzazioni che, a mio avviso, rischiano di far passare il messaggio che ogni uomo in quanto uomo è una probabile delusione (se non addirittura una minaccia) per una donna. Infatti, alla carrellata di figure maschili negative descritte in precedenza, possiamo aggiungere pure l’ex-spasimante di Delia reo di essere stato poco attento alla donna e di essersela fatta “sfuggire”, il suo possibile consuocero che, seppur in maniera più velata, è tirannico come suo marito ed il suo possibile genero che ha tutte le carte in regola per diventare un marito/padrone.

Insomma, per un motivo o per l’altro, nella cerchia di Delia sembra non salvarsi neanche un personaggio maschile eccezion fatta, forse, per il marito (?) della fruttivendola Marisa (che probabilmente si merita una considerazione positiva per il suo presentarsi remissivo ed un “passo indietro” rispetto alla moglie) e per un soldato americano di colore. Un tributo quest’ultimo che se da una parte sembra essere una citazione di “Paisà” di Rossellini, dall’altra appare come una strizzata d’occhio all’Academy di Hollywood che ogni anno assegna i premi Oscar.

Detto questo il film ha sicuramente dei meriti: i riferimenti al cinema neorealista, il fatto di mantenere con quasi tutti gli interpreti un alto livello di recitazione, alcune scelte stilistiche e di regia degne di nota. Ciò non toglie, però, che il progetto cinematografico non mi abbia convinto fino in fondo per i motivi sopraesposti, ma soprattutto perché l’ho percepito come un prodotto studiato a tavolino, elaborato, cioè, per fare da cassa di risonanza a narrazioni e temi che animano il dibattito attuale. Di fronte al successo al botteghino della pellicola ed al suo generale apprezzamento (“Hai visto che bello il film della Cortellesi?” è stata una domanda/ritornello negli ultimi mesi) ho autocensurato le mie perplessità fino a che non ho letto una recensione del film da parte del critico cinematografico Valerio Caprara pubblicata sul suo blog. Ne riporto un passaggio:«Le lodi alla confezione e al piglio dell’autrice, si sa, non costano niente e in linea generale la Cortellesi le merita: però è l’operazione nel suo insieme che sembra premeditata e programmata a tavolino, puntando dritta, cioè, ai David di Donatello e gli altri premi nazionali allineati e corretti». Leggendo Caprara non mi sono sentito più solo nei miei dubbi, ancorché la sua analisi sia più ampia ed approfondita della mia.

Uno a fianco dell’altra, come Lea Massari ed Alberto Sordi che, in “Una vita difficile” (tanto per citare un altro film, questa volta di Dino Risi), seduti accanto in una tavolata di monarchici festeggiano, mangiando, la nascita della Repubblica italiana. Buona festa a tutti.