di Samuele Cosimo Fazzi · Nei mesi scorsi è stato analizzato sulla rubrica “coscienza universitaria” il concetto di felicità da un punto di vista economico, proverò a fare lo stesso cercando di dare un taglio un po’ più giuridico e tentando di rispondere a due domande:
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Esiste un diritto alla felicità?
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Se esiste di cosa si tratta?
Parto da una premessa forse scontata ma la faccio ugualmente: la felicità in sé è un concetto talmente ampio e soggettivo che non ha un significato unico; in secondo luogo, visto che parlerò più propriamente di diritto alla felicità è da ricordare che giuridicamente un diritto corrisponde ad una situazione giuridica soggettiva per cui il soggetto che vi ci si trova fa sorgere in capo a qualcun altro un corrispettivo obbligo e/o un generale dovere di astensione dal ledere quel diritto e che se violato, il titolare può chiederne la tutela ad un giudice (art 24 co.1 cost).
Svolte le considerazioni iniziali, il primo documento giuridico che prevede espressamente il diritto alla felicità è la dichiarazione di indipendenza americana (1776) che lo annovera fra i diritti fondamentali insieme alla vita e alla libertà.
In epoche più recenti è stato desunto dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e dalla dichiarazione universale dei diritti del fanciullo (in particolar modo quest’ultima riferita ai diritti dei bambini e poi confluita nell’omonima convenzione ratificata nell’89).
Tutti questi documenti pur esprimendo principi idealmente giusti, non essendo nient’altro più che mere dichiarazioni, non assumono valore giuridico vincolante ma soltanto declaratorio.
Nell’ ordinamento italiano il diritto alla felicità non è sancito da nessuna norma, tuttavia la costituzione (norma, da ricordare, programmatica e non precettiva, i suoi contenuti necessitano cioè di essere attuata dalla legge ordinaria) agli artt 2 co.1 e 3 co. 2 recita rispettivamente: “la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e “è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto l’uguaglianza impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Stando all’autorevole tesi di M. Fioravanti, docente di storia del diritto all’università di Firenze recentemente scomparso, l’art 2 cost funge da base strutturale per i principi costituzionali contenuti negli articoli successivi; l’uguaglianza sostanziale di cui all’art 3 co.2 cost, posta prima fra tutti non è quindi forse una declinazione del diritto alla felicità? Evidentemente sì, intesa come aspirazione umana affinché l’ordinamento rimuova limiti fattuali che impediscono l’effettiva partecipazione alla vita nello stato e lo sviluppo di ogni persona.
Tuttavia questo non basta, come accennavo all’inizio un diritto per essere considerato tale dev’essere tutelabile in sede giurisdizionale.
Per le considerazioni svolte finora non è quindi ovviamente possibile chiedere ad un giudice la tutela del diritto alla felicità, magari invocando a proprio sostegno gli artt 2, 3 e 24 cost.
Se un avvocato o un giudice si trovassero davanti ad un tizio che pretendesse di fare una causa perché non è felice, fossero veramente onesti (ormai pochi ma buoni) lo manderebbero da uno psicologo (cosa che ormai non succede, dal momento che il 24 cost consente di agire in giudizio anche contro il vicino che sposta la pianta di mezzo metro, con buona pace della deflazione del contenzioso giudiziario).
In conclusione: il diritto alla felicità in quanto tale non esiste ma può essere implicitamente desunto dall’interpretazione dell’art 3 cost e invocabile davanti all’autorità giurisdizionale mediante la tutela di altri diritti garantiti dalla legge grazie all’art 24 cost.