di Stefano Liccioli · S’intitola “Benvenuti in galera” il film documentario di Michele Rho che lo scorso gennaio ha cominciato a fare il giro della sale cinematografiche italiane per raccontare l’esperienza, unica in Italia, di un ristorante stellato (chiamato appunto “In Galera”) situato presso la Casa Circondariale di Milano Bollate. Non è soltanto la collocazione del locale a renderlo speciale, ma soprattutto il fatto che chi vi lavora sono dei detenuti che, prestando la propria opera in cucina piuttosto che in sala, hanno la reale possibilità di un proficuo reinserimento sociale.
Girato nell’arco di tre anni il film porta lo spettatore nella quotidianità di questo ristorante che per le persone carcerate che ci lavorano è l’occasione per apprendere nuove competenze professionali, dimostrare di essere affidabili e saper lavorare in gruppo. Possiamo così seguire le vicende di Davide, lo chef, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel: uomini che hanno sbagliato e che ora cercano una seconda chance per la loro vita, magari grazie a ciò che hanno imparato a fare tra tavoli, pentole e fornelli. In tal senso sono molto significativi i dialoghi di questi ed altri personaggi del film, confessioni che scavano nel loro profondo e da cui affiora anche il proprio travaglio esistenziale.
David, il cuoco che aveva studiato nella scuola di Gualtiero Marchesi, è forse la figura che ha più spazio e che emerge in maniera più definita: appare come un uomo con una forte personalità, a tratti spigolosa, che si sente pronto per cimentarsi in altri progetti culinari, ma che, pur potendo cambiare occupazione, alla fine del film sappiamo che lavora ancora a “In galera”. È proprio David che, in tutta sincerità, condivide quella che, a mio avviso, è la difficoltà più grande di un detenuto a fine pena: incontrare un contesto sociale in grado di accoglierlo nuovamente e di dargli fiducia senza la quale, invece, è complicato trovare un impiego o una casa in affitto. Credo che uno dei motivi per cui in Italia la media della recidiva dei reati sia molto alta, sopra il 75%, dipenda soprattutto dal fatto che il nostro sistema detentivo non favorisca un vero reinserimento sociale.
Merita una menzione particolare Silvia Polleri, madre del regista del film (ma questo è un dettaglio), ed a sua volta “regista” del progetto sociale di questo ristorante nato nel 2015 da una precedente esperienza di catering di qualità operante dall’interno di una Casa di Reclusione che continua ad affiancare quella del locale “In Galera”. Ritengo che questi progetti possano realizzarsi e soprattutto avere una continuità nel tempo solo grazie a persone appassionate e determinate, che credono fortemente in quello che fanno e sono capaci di buttare il cuore oltre l’ostacolo o, per essere più realistici, gli ostacoli, al plurale, perché non è difficile immaginare che le difficoltà che la Polleri ha incontrato sul suo cammino siano state tante e molte siano ancora quelle che ogni giorno deve risolvere. Tra i suoi tanti meriti c’è, secondo me, la scelta di fare un ristorante stellato, con menù e carta dei vini curati, in un ambiente semplice ed elegante. Penso, infatti, che coinvolgere le persone detenute in un progetto di qualità li aiuti ad acquisire fiducia in se stessi, nelle loro capacità di raggiungere traguardi importanti alla stregua degli altri, degli incensurati.
Il valore di “In Galera” non è soltanto nell’opportunità occupazionale che rappresenta per i carcerati, ma perché è un ponte tra il “mondo di fuori” e la realtà penitenziaria. Da sempre la tavola ed i momenti conviviali esprimono concretamente valori come la condivisione e la conoscenza reciproca. Passa anche da progetti come questo il superamento di una ghettizzazione sociale che rischia di riguardare gli istituti penitenziari italiani e soprattutto le persone che lì sono detenute. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone, nel 2022 all’8,7 % dei detenuti era stata diagnosticata una patologia psichiatrica grave, il 18,6 % assumeva regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi, mentre il 42,4 % assumeva sedativi o ipnotici.
Non sono un specialista, ma credo che la solitudine, la nostalgia di casa (soprattutto per gli stranieri), il senso di colpa, così come il sovraffollamento delle celle detentive, possano minare la salute mentale delle persone carcerate. Il fatto, però, di poter avere un contatto con il mondo esterno (nella forma, per esempio, di clienti di un ristorante) è un modo per non sentirsi più invisibili ed essere riconosciuti al di là dei propri errori, così come ha detto Papa Francesco durante l’omelia della Messa in Coena Domini che, in occasione del Giovedì Santo appena trascorso, ha celebrato presso la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia (Roma):«Sempre, tutti noi abbiamo piccoli fallimenti, grandi fallimenti: ognuno ha la propria storia. Ma il Signore ci aspetta sempre, con le braccia aperte, e non si stanca mai di perdonare».