di Giacomo Funghi – Altri economisti si occuparono di felicità tra il XVIII e il XIX secolo, soprattutto in Italia, nell’illuminismo italiano tra Napoli e Milano. Proprio a Napoli nacque la prima cattedra al mondo di economia all’università di Napoli ricoperta dall’abate Antonio Genovesi, il padre dell’economia civile, e lo slogan degli economisti civili era proprio “felicità pubblica”. Questo perché l’economia era vista come lo strumento per il progresso delle condizioni di vita della società, della civitas, e che in questo progresso gli uomini avrebbero imparato ad instaurare rapporti civili, pacifici, di rispetto tra loro, perché tramite i principi del bene comune, del mutuo vantaggio e della giustizia avrebbero trovato il modo di vivere insieme. Centrale è allora il messaggio di doversi spendere per gli altri, perché la felicità non è privata ma pubblica perché dipende dalle relazioni che l’uomo instaura e dipende da come la società è strutturata perché ne determina il modo stesso di relazionarsi. C’è bisogno allora di leggi giuste, di un mercato di mutuo vantaggio e non di solo interesse personale e di uomini e donne che si mettano a servizio della comunità, di buoni e sinceri amici, di brave persone. L’impegno civico è la pubblica felicità.
Su una linea simile si trovava il pensiero sociale di Keynes che rileggendo Aristotele rifuggì ogni aspetto dell’utilitarismo benthamiano. Analizzò il rapporto tra eudaimonìa e edonìa e tra le virtù e la democrazia. Le sue riflessioni meriterebbero un approfondimento a parte.
Per moltissimi anni, poi, gli economisti hanno accantonato il problema della felicità, fino al paradosso di Easterlin che fu come un fulmine a ciel sereno in un mondo massimizzatore del PIL, un mondo che nell’interesse privato ha trovato la chiave per spremere le risorse del mondo senza giustizia. Quale mondo si stava venendo a creare e quale si sta formando ora? Ci stupisce sempre vedere l’aumento della ricchezza accompagnato dalla diminuzione della felicità. La povertà nell’abbondanza la chiamava Keynes. Gli studi sulla felicità oggi ci ha consegnato lezioni importantissime che dobbiamo ben tenere a mente.
Nel corso degli ultimi decenni sono stati condotte moltissime ricerche empiriche di tipo statistico, economico ed econometrico che evidenziano che la felicità, riassumendo in estrema sintesi, dipende da:
– i confronti con gli altri, viviamo di confronti, se un amico è triste sono empatico nei suoi confronti e sono triste con lui, se è felice sono felice con lui
– l’adattamento edonico, tendiamo ad assuefarci a ciò che ci dà felicità nell’immediato cambiando spesso stimoli
– i beni relazionali, perché le relazioni sono un bene e la loro qualità è importante, in particolare le relazioni familiari (si potrebbe aprire un capitolo enorme sullo stato di salute delle famiglie), le amicizie più strette, le relazioni nelle attività di volontariato e sul luogo di lavoro (su cui si potrebbe aprire un altro capitolo enorme sul lavoro degno, il fenomeno dei grandi dimissionari, i morti per disperazione e il welfare state)
– la generatività, l’elemento più importante. Generatività significa che quello che facciamo ha valore per qualcun altro. Più le persone sono generative, più quello che fanno genera un valore per chi gli sta in torno, più pensano che la loro vita abbia significato. Medici, insegnanti, imprenditori sono esempi di generatività, perché vedono direttamente che il loro lavoro ha un impatto sulle vite delle persone. Senza la generatività c’è la povertà del senso di vivere ben descritta da David Graeber in Bullshit jobs:
“Che cosa si può immaginare di più demoralizzante del doversi svegliare ogni mattina per portare a termine un compito che in cuor nostro crediamo non andrebbe svolto perché è solo uno spreco di tempo o di risorse, oppure perché addirittura rende peggiore il mondo? Non rappresenterebbe una ferita psichica per la nostra società? Probabilmente si, ma è uno di quei problemi di cui nessuno sembra interessato a parlare.”
Questa è la chiave della generatività, la ricerca di senso, la sfida che si combatte oggi. La difficoltà nella soddisfazione lavorativa, nel creare una famiglia, nell’avere relazioni stabili, sono tutte questioni che interrogano la fioritura della persona nella società di oggi. La nostra costituzione invoca “il pieno sviluppo della persona umana” (art 3) perché solo una persona fiorita è capace di relazionarsi con gli altri e solo una società giusta è capace di far fiorire le persone e una società è giusta se chi la abita è onesto, giusto e si impegna per il bene delle persone. Essere felici è una sfida, non è qualcosa che accade è basta e neanche un bene di consumo che possiamo comprare. È una sfida, oggi, riscoprire di non essere soli, di poter affrontare le difficoltà della vita con serenità e con amici a fianco, perché vivere le fatiche, soffrire per qualcosa o per qualcuno è la massima forma di amore per gli altri. È una sfida credere di potersi spendere per gli altri senza aspettarsi nulla indietro, è una sfida dare un senso alla propria vita che è degna di essere vissuta solo se si lega alle vite degli altri. Vogliamo essere felici perché la sorte del nostro mondo ci importa e anche se spesso siamo tristi vogliamo essere felici, e anche quando non troviamo il coraggio nelle situazioni difficili della vita in cui, erroneamente, pensiamo di essere soli e che il nostro impegno per gli altri possa non valere niente.
In economia la felicità si misura tramite la soddisfazione di vita con due domande. Quanto sei soddisfatto della tua vita? Pensi che la tua vita abbia un senso?
“È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”. Antonio Genovesi