di Giacomo Funghi · Prima ancora che la seconda guerra mondiale finisse, a Bretton Woods, negli Stati Uniti, vennero siglati i nuovi patti internazionali sul regime dei tassi di cambio. Venne scelto di adottare un sistema di tassi di cambio fissi e di tenere chiuso il conto di capitale, ossia le operazioni finanziarie potevano essere effettuate solo all’interno del paese, un italiano, per esempio, non poteva comprare titoli pubblici o privati statunitensi e viceversa. Questo per rispettare “il trittico dell’impossibilità ” che impedisce di avere contemporaneamente tassi di cambio fissi, una politica monetaria autonoma e la perfetta mobilità dei capitali.
Il sistema di Bretton Woods crollò, per via di anomalie nel sistema, prima nel 1971 e definitivamente nel 1973. Dal 1973 al 1979 il regime dei tassi di cambio passó da cambi fissi a flessibili, il valore di una valuta era quindi determinato dalla domanda e dall’offerta delle valute e per rispettare il trittico dell’impossibilità il conto di capitale venne gradualmente aperto. Questo regime dei tassi di cambio, però, rendeva il valore delle valute molto instabili e difficili da controllare. Per questo nel 1979 vennero siglati degli accordi per il “sistema monetario europeo” (SME) che adottava tra i paesi dell’allora Comunità Europea un sistema di tassi di cambio fissi a bande di oscillazione per cercare di rendere l’Europa un’area di stabilità monetaria. Le problematiche dello SME si notarono presto, la Germania in quegli anni emerse in Europa come potenza industriale e il suo peso economico era tale che una una loro politica monetaria creava feedback verso gli altri paesi e asimmetrie nello SME. La continua apertura del conto di capitale a livello internazionale enfatizzò il trittico dell’impossibilità, tanto che sia l’Inghilterra che l’Italia dovettero uscire dallo SME per via della crisi della sterlina e della lira che minacciava le economie interne. La soluzione allora poteva essere adottare una moneta unica per proteggere l’economia europea dalle speculazioni e unire gli stati nel mercato unico europeo. Era possibile, però, che stati diversi potessero adottare la stessa moneta?
Negli anni sessanta degli economisti stabilirono i caratteri dell”Area Valutaria Ottimale (AVO) che sono: perfetta mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro), tendenza ad avere cicli economici simili in termini di inflazione e disoccupazione, flessibilità di prezzi e salari, un’elevata integrazione finanziaria per far convergere i tassi d’interesse, una politica fiscale comune che possa aiutare a rimuovere le asimmetrie tra le varie regioni. La Comunità Europea non aveva questi requisiti, ma gli stati si impegnarono per far convergere queste variabili per poter diventare un’area valutaria ottimale e ci riuscirono, o quasi. Nel 1992 vennero siglato il patto di Maastricht che istituiva la Banca Centrale Europea, nel 1999 entrò in vigore l’euro e nel 2002 l’euro entrò in circolazione nei portafogli delle persone. A livello internazionale il conto di capitale era ormai totalmente aperto, l’euro era ed è scambiato a tassi di cambio flessibili, perciò, per il trittico già citato, il costo di adottare la moneta unica fu la perdita della politica monetaria autonoma affidata alla BCE. All’Unione Europea manca ancora qualcosa per l’AVO, la mobilità del lavoro incontra la barriera della differenza linguistica, ma soprattutto manca una politica fiscale comune. Manca anche un organo politico che legittimato ad occuparsene perché né il parlamento né la commissione europea sono autorizzati ad agire in tal senso. Infatti negli anni dal 1997 con il Patto di Stabilità e Crescita e con le sue modifiche (attualmente sospeso per la crisi pandemica) si è cercato di ovviare a questa mancanza cercando una cooperazione fiscale più che una politica comune. Anche se molto assente sui giornali italiani, attualmente questi termini di integrazione politica – fiscale sono discussi nel parlamento europeo, con proposte che mirano sempre di più alla realizzazione di un’Europa più unita, che possa essere in grado di affrontare le grandi sfide internazionali.