di Francesco Vermigli · In questa rivista online ci è già capitato di scrivere qualcosa sul tema a cui si allude nel titolo. Era l’ottobre del 2020 (vedi) e trattavamo di qualcosa di affine a quello di cui parleremo qui, in un articolo sulla poesia di Dante; quella poesia che si scopre costretta a trascendere i propri limiti, perché chiamata a raccontare ciò che pare impossibile poter raccontare con la forza delle sole nostre parole ordinarie: il trasfigurarsi misteriosissimo dell’umano nella gloria del Paradiso, il suo “indiarsi”. Quella chiamata alla trascendenza l’avevamo posta sotto il termine “trasumanar”, tratto dalle parole di un paio di versi del Paradiso: «Trasumanar significar per verba / non si porìa» (Paradiso I,70-71).
Ora, non si tratta di riprendere quella tematica in senso stretto. Si tratta di ispirarsi a quelle parole di Dante per parlare di un desiderio, di un anelito, ma forse anche di un’illusione e di un inganno dell’uomo dei nostri tempi: superare i limiti della natura umana, trascenderli, trasformarli; secondo una spinta prometeica che passa dall’intelligenza artificiale – intesa come estensione potenzialmente illimitata delle capacità intellettive naturali – alla procreazione artificiale – che separa la generazione dall’atto sessuale – fino alla disponibilità libera e assoluta (nel senso di “sciolta”: sciolta, cioè, da ogni considerazione morale e di ragione) sul proprio corpo, concepito come mera materia da plasmare.
Ci pare che questo anelito così pervasivo dei nostri tempi nasconda qualcosa di autentico e – forse, inaspettatamente – che esso vada a toccare qualcosa di originariamente cristiano. A questa situazione assai complessa, volgeremo il nostro sguardo; in una maniera certamente corsiva e rapida. In modo particolare, il confronto con il modello cristiano crediamo che sarà in grado di mostrare quanto di autentico e nello stesso tempo di ingannevole vi sia in tutto questo.
L’anelito a superare i limiti sembra davvero essere un desiderio autentico e radicato dell’uomo. L’uomo è la creatura che vive la propria vita in maniera cosciente; e che scopre in quella stessa propria vita anche il desiderio di un “di più”, perché ha coscienza che è dell’uomo volere e potere di più. Si tratta di una inquietudine che abita nel cuore più profondo dell’uomo, dotato di intelletto e di volontà e di azione; facoltà che possono concorrere al bene di una vita più grande. L’uomo è per definizione l’uomo della trascendenza: libero e razionale, vuole aumentare le capacità della propria natura. Mentre per tutto ciò che esiste si può dire che agere sequitur esse (cioè le azioni di ciò che esiste seguono l’essere), nel caso dell’uomo si avverte un desiderio di trascendere le potenzialità della stessa propria natura.
Se accade questo – teologicamente parlando – è perché vi è qualcosa nell’uomo che tende a questo. Vale a dire che se portiamo al livello della teologia questa inquietudine umana a volere e a potere sempre di più, noi possiamo leggere questo fatto come inerente alla costituzione dell’uomo, in cui alberga una tensione iscritta da Dio a essere di più, a volere di più, a cercare di più. V’è cioè – ancora teologicamente parlando – qualcosa dell’uomo che tende oltre i limiti della natura stessa. Quello che de Lubac avrebbe chiamato il “desiderio del soprannaturale”, tomisticamente: desiderium naturale videndi Deum.
C’è qualcosa in questo anelito moderno che pure sembra recuperare qualcosa di autenticamente cristiano, che non può non essere notato. Mi riferisco al fatto cioè che questo anelito, questo desiderio passa attraverso l’annichilimento di ciò che è propriamente umano. Il superamento del limite viene percepito con l’annientamento del limite; al contrario di quello che accade teologicamente, perché teologicamente accade qualcosa di profondamente diverso. Mentre il desiderio cristiano del “di più” (teologicamente del soprannaturale) passa attraverso il potenziamento delle facoltà naturali umane, la loro estensione e la loro purificazione, nel trans-umanesimo il limite è percepito come un problema da superare; semplicemente annientandolo. In qualche modo notiamo una certa consonanza del “trasumanar” cristiano con l’hegeliano Aufhebung, che non elimina il momento precedente, ma lo assume in una determinazione più grande.
Che il limite sia da superare senza annientarlo lo dice la stessa vicenda di Cristo. Cristo è l’uomo nuovo, non un’altra cosa dall’uomo. Egli è la pienezza dell’umanità, l’umanità com’è pensata da Dio da sempre. Egli è la perfezione di ogni facoltà umana, Egli è l’uomo che puoi contemplare come nessun altro, che puoi vedere nelle potenzialità sue più grandi. Egli ci sta alle spalle: nel tempo è nato, sotto la Legge è nato, per riscattarci e renderci figli (cf. Gal 4). Ma Cristo è soprattutto davanti a noi: quella tensione che ci abita, quell’anelito a essere “di più” senza smettere di essere uomini, è il fine della nostra vita ed è la davanti a noi: Cristo glorificato, che attende noi, che ci configuriamo a Lui. Il “di più” dell’uomo in fondo è Cristo. Solo Cristo. Nient’altro che Cristo.