di Francesco Vermigli · Quando penso a Francisco Suárez, mi torna in mente un’immagine austera e fin troppo emaciata (ma la teologia fa male alla salute?), che guardava con un certo distacco noi apprendisti teologi dall’alto di una parete, tra gli scaffali della più antica sala lettura della biblioteca della Gregoriana. Quando penso a Suárez penso a quel bavero rialzato, a quella veste gesuitica e a quegli occhi un po’ distratti e, forse, anche un po’ rassegnati per l’approssimazione dei nostri sforzi di giovani ricercatori; lui che la teologia l’aveva insegnata, ma soprattutto – se ci vien passato il gioco di parole – l’aveva segnata per davvero. Chi studiava sotto quell’immagine presumeva esser il suo erede, poi incrociava il suo sguardo e capiva che la storia dei nani sulle spalle dei giganti è una storia raccontata con falsa umiltà, da gente in fondo in fondo un po’ superba: perché sulle spalle dei giganti bisogna andarci e su quelle di Suárez – almeno per quanto mi riguarda – io non ci sono riuscito a salire.
Quando penso a Suárez, penso ad una storia teologica tutta da scrivere e alle vicende del Vecchio Continente tra il ‘500 e il ‘600: penso all’epoca dello scisma e della divisione di matrice protestante (un giorno si sarebbe detto anche l’epoca dell’eresia diffusa e conclamata… “eresia” del resto è parola che porta con sé il significato della scelta e dunque della separazione, perché chi sceglie separa, abbracciando qualcosa e rifiutando qualcos’altro); penso all’epoca della risistemazione teologica (o della rigidità teologica, se crediamo alla vulgata storiografica spesso terrorizzata come un bambino alla sola evocazione della Chiesa controriformistica?); penso all’epoca degli Stati confessionali (Parigi ha sempre valso qualcosa più della semplice – semplice si fa per dire – celebrazione di una messa… e però dall’altra parte non si era da meno: cuius regio eius religio… o si crede che questa formula valesse solo in salsa cattolica?).
Quando penso a Suárez, mi ritorna in mente, sì, quell’immagine sugli spalti della Gregoriana (un’immagine che non era un incubo per noi studenti, si badi, ma una sana riconduzione alla realtà per cui il nostro sforzo intellettuale – a confronto – era solo uno sbiadito e confuso dilettantismo teologico) e penso, sì, a quella stagione teologica ed ecclesiale tutta particolare. Ma quando penso a Suárez penso a due parole che lo identificano nel panorama complessivo della storia della teologia: sistema ed eclettismo.
Sistema. Egli fu, lo si sa, il campione della Seconda Scolastica o della Scolastica che talvolta viene detta “barocca”: ma agli orecchi di un fiorentino – che di per sé non potrà che avere in uggia tutto ciò che quella parola “barocca” evoca (stucchi e chincaglierie, oro e ridondanza, ampollosità retorica e tronfia… vabbè lo sappiamo che non era così davvero, ma vaglielo a spiegare a un fiorentino!) – agli orecchi di un fiorentino, si diceva, non gli si fa un grande favore a definirla così quella Scolastica venuta dopo la Prima e Grande. Ma in cosa fu campione di questa Scolastica (chiamatela come vi pare)? Perché – se si è campioni – si è campioni in qualche disciplina specifica. Ebbene, lui fu campione, sì. Fu campione della speranza, dell’anelito (del sogno?) di un sapere sistematico che coprisse l’intero scibile umano: dalla metafisica alla teologia (che sarà pensata come disciplina del Dio in sé, ma anche del Dio per noi: de gratia), dal diritto alla politica. In questo, ci si domanderà, in che cosa si distinse dai grandi suoi predecessori nel cammino della teologia? Non fecero così anche i doctores del secondo d’oro della Scolastica medievale?
Sì, ma anche no. Perché quelli si profusero nella modalità della Summa, Suárez articolò il sapere in tanti trattati: è come se non avesse fatto altro che estrarre tanti nuclei della sapienza medievale presentata nelle Summae e l’avesse resi autonomi. Ma così facendo, il Suárez non si dovrà forse considerare come la causa di quella vera e propria sciagura della teologia moderna che è stata la frantumazione del sapere in blocchi così tanto autonomi da renderli praticamente incomunicabili (perché oggi no? il docente di trinitaria sa poco di cristologia, quello di sacramentaria non sa che dica l’escatologia, l’antropologo sa a mala pena dell’esistenza dell’ecclesiologia…)? È colpa di Suárez, dunque? Forse no… ognuno è responsabile di se stesso, anche per quanto riguarda gli errori: però quando lanci nel vuoto qualcosa di nuovo (il trattato per ogni argomento teologico), non sai poi cosa può accadere…
Eclettismo. Vi è poi l’altra parola che mi viene in mente quando penso a Suárez: eclettismo. Eclettico è una persona originale, creativa, che non la puoi incasellare. Così è della sua teologia. La vuoi definire tomista? Sì, ma anche no… È in fondo l’indole tipica della teologia gesuitica quella di ispirarsi a Tommaso, ma con riserva. La vuoi definire, allora, scotista? No, certo questo no. Eppure, la sua metafisica talvolta non prende proprio qualcosa da Scoto per correggere Tommaso (correggere, si faccia attenzione, non nel senso che Tommaso avesse sbagliato… correggere perché si voleva riprendere Tommaso, ma anche andare oltre Tommaso)? L’eclettismo, è inutile sottolinearlo, è dei grandi. Dei grandi è prendere dal passato e mischiarlo e farlo diventare nuovo e proporre cose grandi al futuro. Così è anche dei grandi della teologia. Così è anche di Francisco Suárez.
Ed è per questo che quando – ormai con il titolo e le vesti dell’accademico – torno in quell’aula della biblioteca della Gregoriana, non mi passa neanche minimamente per la testa di pensare di esser finalmente riuscito a salire sulle spalle di quell’antico professore austero ed emaciato (ma la teologia – tutte le volte che torno in quella biblioteca me lo richiedo – non farà mica male alla salute?).