di Andrea Drigani · Quest’anno ricorrono quattrocento anni dal martirio di San Giosafat Kuncewycz (1580-1623) e sessant’anni dalla collocazione dei suoi resti mortali nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
E’ interessante ripercorrere brevemente la sua vita e la sua fama di santità nel contesto storico in cui visse.
Giosafat Kuncewycz (al secolo Giovanni Kumcewycz) era nato nel 1580 a Volodymyr da genitori appartenenti alla nobiltà ucraina e alla Chiesa ortodossa, facenti parte delle comunità cristiane di rito bizantino-slavo residenti nello Stato polacco-lituano, chiamate con il nome di Ruteni.
In seguito al Concilio Ecumenico di Firenze (1439-1442) la Chiesa metropolitana di Kiev, nel 1595, decise di staccarsi dal Patriarcato di Costantinopoli per entrare nella piena comunione con il Vescovo di Roma.
Papa Clemente VIII accolse l’obbedienza dei vescovi ruteni, confermando, nel 1596, gli antichi diritti della metropolia di Kiev, stabilendo, altresì, che si dovevano conservare intatti il rito e le istituzioni canoniche orientali; i vescovi erano, poi, obbligati a ricevere l’investitura canonica dall’arcivescovo metropolita il quale, eletto dai vescovi, doveva essere confermato dal Romano Pontefice.
Il Sinodo dei vescovi ruteni, celebrato a Brest-Litovsk dal 6 al 10 ottobre 1596, proclamò solennemente l’unione della Chiesa metropolitana di Kiev con la Chiesa di Roma.
Giovanni Kuncewycz inviato giovanissimo a Vilnius per svolere un’attività commerciale, assistette alle diatribe, piuttosto accese, tra i Ruteni ortodossi e uniti. Dopo una profonda ed attenta riflessione decise di entrare tra i Ruteni uniti (che successivamente dalla Cancelleria imperiale austrica verranno denominati «greco-cattolici»).
Nel 1604 divenne monaco, col nome di Giosafat, entrando nel monastero basiliano della Santa Trinità in Vilnius, nel 1609 fu ordinato prete e divenne superiore di nuovi monasteri.
Nel 1617 ricevette l’ordinazione episcopale e fu nominato coadiutore dell’arcivescovo di Polock (che attualmente si trova in Bielorussia) per succedergli l’anno dopo.
Giosafat Kuncewycz si dedicò alla riforma del clero e all’educazione cristiana del popolo, con grande successo, causando l’avversione degli ortodossi.
Il 12 novembre 1623 durante una visita pastorale la folla, aizzata da demagoghi scismatici, assalì l’arcivescovo e lo uccise a colpi di randello e di ascia; la sua salma oltraggiata fu gettata nel fiume Dvina; ritrovata fu seppellita nella cattedrale di Polock.
Giosafat Kuncewycz fu beatificato il 16 maggio 1643 e canonizzato il 29 giugno 1867.
Il suo corpo a causa degli eventi bellici fu trasferito prima a Biala, in Polonia, poi nel 1916 a Vienna nella Chiesa di Santa Barbara.
Il Papa Paolo VI, il 22 novembre 1963, fece collocare il corpo di San Giosafat Kuncewycz, nella Basilica Vaticana, sotto l’altare dedicato a San Basilio Magno, nei pressi della tomba di San Pietro.
Nel terzo centenario della sua morte, il 12 novembre 1923, Papa Pio XI lo ricordò con l’Enciclica «Ecclesiam Dei».
Pio XI, che ebbe sempre grande attenzione per l’Oriente cristiano (a lui, tra l’atro, si deve l’incremento del Pontificio Istituto Orientale e la fondazione del «Pontificium Collegium Russicum»), nella suddetta Enciclica, muovendo dalla vita e dell’opera di San Giosafat Kuncewycz, ribadiva l’importanza della tradizione orientale nella Chiesa cattolica come segno della sua piena unità nell’annuncio integrale della fede cristiana.
Papa Francesco, il 25 novembre 2013, rivolgendosi ai pellegrini greco-cattolici ucraini convenuti nella Basilica di San Pietro, per il 50° anniversario della deposizione dei resti mortali di San Giosafat Kuncewycz, osservava che la memoria di questo santo martire ci parla della comunione dei santi, della comunione di vita fra tutti coloro che appartengono a Cristo. Se tale è la comunione della Chiesa – proseguiva – ogni aspetto della nostra esistenza cristiana può essere animato dal desiderio di costruire insieme, di collaborare, di imparare gli uni dagli altri, di testimoniare la fede insieme. Il modo migliore di celebrare San Giosafat – concludeva – è amarci tra noi ed amare e servire l’unità della Chiesa.