Per una rivisitazione delle buone pratiche quaresimali

di Gianni Cioli · La quaresima viene spesso definita come un “tempo favorevole”, ovvero come un’opportunità felice per far compiere un salto di qualità alla vita del cristiano, aiutandolo a ricentrarsi sull’evento più importante e decisivo per tutti e per ciascuno: la Pasqua del Signore. Nell’evento pasquale, ovvero nella morte e risurrezione del Signore Gesù, si è manifestato, nel modo più profondo e compiuto, tutto il mistero dell’amore di Dio. Verso questo amore siamo chiamati, sempre di nuovo, a orientare la mente e a dirigere il cuore per ritrovare il significato della nostra esistenza.

Ricentrarsi sulla Pasqua vuol dire, innanzitutto, corrispondere all’amore di Dio, che ci ha amati per primo. Corrispondere all’amore divino significa innanzitutto impegnarsi a riamare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte forze, ma significa anche impegnarsi ad amare il nostro prossimo come noi stessi, il che presuppone altresì (come logica necessità) l’impegno serio e sincero ad amare se stessi davvero.

In questa breve riflessione vorrei proporre una rivisitazione delle tradizionali tre “buone pratiche” quaresimali: la preghiera, l’elemosina e il digiuno, interpretabili, rispettivamente, come esercizio dell’amore verso Dio, verso il prossimo e verso se stessi.

Comunque, ogni parola, sia di lode, sia di ringraziamento, sia di richiesta, che rivolgiamo a Dio nella preghiera, dovrebbe dare la precedenza (sia temporalmente che assiologicamente) all’ascolto della parola di Dio. Dare più spazio all’ascolto della Parola, memorizzandone, magari, alcuni versetti per noi significativi, ci dispone, oltretutto, ad affrontare meglio i momenti crisi e a contrastare efficacemente i pensieri negativi, come ci testimonia lo stesso Gesù nel vangelo delle tentazioni (Mt 4, 1-11), quando mette a tacere il diavolo, per tre volte, citando il Deuteronomio.

Per concludere, possiamo considerare il digiuno (la pratica, fra le tre, forse più connotabile come quaresimale) come la pratica orientata in modo più specifico all’autentico amore di sé. Nel suo significato più tradizionale e diffuso il digiuno è inteso, normalmente, come temporanea rinuncia al cibo, atta a contrastare il vizio della gola. In questa rivisitazione, propongo tuttavia di intendere il digiuno, per analogia e in senso allargato, anche come impegno a sapersi dire dei “no”, non solo nel rapporto col cibo, per imparare a volersi più bene. Sì, dobbiamo imparare ad amarci in modo più vero esercitandoci a dire “no” a noi stessi, soprattutto in quegli ambiti esistenziali nei quali maggiormente si sperimenta una qualche forma di dipendenza e, quindi, un depotenziamento della libertà e, fatalmente, delle forze morali. La dipendenza dal cibo, con i connessi e ben noti disturbi alimentari, può certo costituire un limite per la libertà, da cui affrancarsi. Ma che dire allora delle varie, e talora particolarmente devastanti, dipendenze collegate all’utilizzo di internet, talvolta patologiche (IAD), spesso decisamente viziose, sempre molto pericolose soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Non sarebbe allora opportuno promuovere forme di digiuno proprio in quest’ambito, illustrandone i vantaggi? Non certo solo in Quaresima. Ma la Quaresima potrebbe essere l’occasione per cominciare un’esperienza di libertà di cui far tesoro. Nel mondo di oggi non è possibile rinunciare all’uso di internet, ma è invece possibile e, direi, necessario limitare l’uso perché non diventi abuso. Si tratta appunto, in una sorta di digiuno per analogia, di provare con determinazione a dirsi dei “no”, con la consapevolezza che ne vale davvero la pena. La dipendenza, infatti, conduce inesorabilmente all’infelicità perché produce la morte dell’autostima per compensarla con l’effetto effimero delle endorfine.

Ci sono evidentemente anche altre dipendenze oltre a quelle legate all’abuso di internet, e ognuno dovrebbe esaminarsi e cominciare a contrastare i “suoi vizi” con “terapie di digiuno” specifiche. Ma ho posto l’enfasi sui rischi della Rete perché questa sta diventando una realtà sempre più invasiva e totalizzante, nell’indifferenza o nella rassegnazione pressoché generale.