Nella tensione tra «diritti» e «doveri» una caratteristica del nostro tempo
M. Bella – P. Mirante, 2022) ha messo sotto la lente di ingrandimento la retorica mainstream dell’estensione infinita dei diritti da parte della politica in Italia, che tuttavia stride e contrasta con una insufficiente produzione di risorse per renderli realizzabili. L’analisi dei discorsi di insediamento dei 68 presidenti del consiglio italiani che si sono succeduti dal 1946 fino all’attuale, rivela in modo oggettivo come la politica italiana trascuri l’etica dei doveri, ma riteniamo sarebbe facile verificare che la stessa cosa accada un po’ in tutto il mondo,
Nel pensiero oggi dominante, infatti, si parla non solo di una “positivizzazione” di “nuovi diritti” quali quelli relativi alle relazioni sessuali, matrimoniali e riproduttive che sorgono a seguito delle innovazioni scientifiche e tecnologiche nel campo della medicina, della biologia e della genetica (S. Nespor, 2019), ma anche di un ampliamento del godimento di diritti già riconosciuti di natura reddituale o patrimoniale. In molti casi i cittadini ritengono di avere un “diritto” a non subire le conseguenze dell’inflazione, a migliorare la qualità e il valore dell’ambiente domestico, ad avere un reddito corrente più elevato, ad una prospettiva pensionistica fatta di un minor numero di anni di contribuzione e un numero più alto di anni di godimento. Tutto ciò, nella convinzione del “diritto ad avere” a prescindere dalla valutazione di ciò che sarebbe necessario fare, anche da parte loro, per costruire una tale dimensione economica.
A fronte della convinzione del “diritto ad avere” la politica che dovrebbe esercitare una “leadership” per il bene comune, assume piuttosto l’atteggiamento di “follower” dell’opinione pubblica, dicendo e facendo ciò che ritiene vogliano i propri elettori, senza riferimento a merito o a doveri e con l’obiettivo di rinsaldare il circolo “promessa-consenso-promessa” a fini elettorali.
Il comportamento della politica è confermato dai dati. Nel verificare quante volte le parole “merito, dovere, diritto” ricorrono nei sessantotto discorsi di insediamento dei presidenti del consiglio in Italia dal 1946 a oggi, si può constatare che «il concetto di dovere è scomparso dalle sedi istituzionali e, nella stragrande maggioranza dei casi, la parola indica una generica obbligazione dell’esecutivo o della politica nei confronti dei cittadini» (M. Bella – P. Mirante, 2022). Inoltre, la ricorrenza della parola “diritto” è stabilmente crescente e indipendente rispetto “merito” e “dovere” (M. Bella).
Essendo esteso per quasi 80 anni, un tale fenomeno non è attribuibile al caso. Inoltre, prescinde da quelli che possono essere definiti governi di centro, destra o sinistra, in quanto il tema dei diritti risulta una variabile indipendente da qualsiasi altra relazione, in una visione “meravigliosa” che prescinde dal, comunque, ineludibile ruolo del “dovere” in ambito politico-sociale. Si potrebbe osservare che psicologicamente e sociologicamente tutto questo corrisponde ad una regressione verso uno stato di individualismo infantile, dove sparisce il cittadino adulto, cosciente delle proprie responsabilità e della necessità di contribuire al bene comune e di collaborare con gli altri, per fare spazio alla figura di un “suddito-bambino-consumatore” che si aspetta consciamente ed inconsciamente la soddisfazione delle proprie esigenze da parte di una entità variamente identificabile con lo stato, la società, la giustizia, il mondo. In questo quadro, il politico si colloca come un attore a cui una società di consulenza mette a disposizione una strategia di marketing più o meno efficace.
È una situazione che può essere vista anche come il risultato del graduale allontanamento da Dio delle società moderne nella misura in cui si è diffusa la “società del benessere”, capace di soppiantare ogni valore spirituale e sociale. Per questo è urgente, a cominciare dalla comunità cristiana, fare più attenzione ai moniti che continuamente ci vengono rinnovati dalla saggezza della Dottrina sociale della Chiesa, che ci invita a considerare che: «Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggior chiarezza l’intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo. (…) la vera elevazione dell’uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno non si raggiunge sfruttando solamente l’abbondanza dei beni e dei servizi, o disponendo di perfette infrastrutture. Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull’identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto (…) risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo, richiamando l’attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: “Qual vantaggio avrà l’uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?” (Mt 16,26)» (Sollicitudo rei socialis n. 33).
In realtà, l’autentico benessere di ogni essere umano e di ogni comunità, non dipende dalla rivendicazione a prescindere di ogni “diritto” ma è piuttosto il risultato dell’impegno ad assumersi il “dovere” di contribuire al bene comune di tutti, attraverso l’esercizio della solidarietà la quale: «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (ivi n. 38).