di Francesco Vermigli · Nei giorni immediatamente precedenti a Natale è passata in sordina una notizia di notevole rilevanza: il decreto promulgato il 17 dicembre scorso, con il quale papa Francesco ha dichiarato venerabile il notissimo missionario gesuita Matteo Ricci. Prendiamo spunto da questo fatto, per recuperare in breve la sua vicenda e provare a tracciare qualche considerazione su come la fede cristiana si collochi nei singoli contesti storici e religiosi.
Matteo Ricci è stato certamente il più noto missionario occidentale della storia in Cina; giungendovi alla fine del ‘500 e rimanendovi fino alla sua morte, avvenuta a Pechino, capitale della dinastia Ming l’11 maggio del 1610. Nella sua opera egli seppe certo trarre insegnamento dalla pratica missionaria del padre Alessandro Valignano, plenipotenziario del preposito generale dei gesuiti nelle Indie Orientali; quel Valignano che era stato suo professore in Italia e che chiamò nel 1582 il Ricci a Macao (porto cinese, ma sotto l’autorità portoghese), assieme al padre Michele Ruggieri, il primo sinologo occidentale.
Ma Matteo Ricci riuscì in qualcosa che di fatto nessuno era riuscito a compiere in precedenza: lasciare la Cina meridionale che aveva conosciuto da alcuni anni una sorta di occidentalizzazione ad un tempo politica e religiosa, e penetrare nel centro politico e amministrativo del grande impero cinese; trattato come un mandarino, accolto alla corte dell’imperatore Wan Li. Ed apparirà singolare forse solo a noi che percepiamo – nonostante le mille “vie della seta” che si vanno progettando nell’Eurasia – come misteriosa la cultura cinese (e ci fa sorridere il vecchio e sbiadito slogan “la Cina è vicina”)… apparirà singolare, si diceva, che ancora oggi egli sia considerato come una delle espressioni più alte dell’incontro del mondo occidentale con quello cinese; tanto che si dice che Henry Kissinger – all’epoca Segretario di Stato dell’allora presidente statunitense Richard Nixon – si sia preparato alle sue visite segrete del 1971 in Cina e a quella ufficiale del 1972 leggendo i diari del padre Ricci. Di altissimo onore il fatto che le sue spoglie mortali siano state seppellite per prime in quel cimitero di Zhalan che sarebbe diventato il cimitero dei missionari gesuiti in Cina; visitato anche in questi ultimi decenni da numerosi politici occidentali, come luogo simbolico dell’incontro tra Est e Ovest.
Tuttavia, la vicenda di Matteo Ricci appare di grandissimo interesse anche per l’attualità della fede cristiana. Per quanto la cosiddetta “controversia sui riti cinesi” formalmente esploda solo in seguito alla morte di Ricci, essa si trova racchiusa in nuce nella sua stessa vita. E la questione è a dir poco rilevante per il rapporto tra la fede cristiane e le culture umane.
La questione sui riti cinesi (ma ben presto anche su quelli malabarici in India) tocca la compatibilità dei riti della tradizione cinese con la fede cristiana. L’oscillazione tra ‘600 e ‘700 sul punto fu grande – anche a livello delle decisioni della Sede Apostolica – e di fatto si risolse solo nel 1939 con l’istruzione di Propaganda fide Plane compertum durante il pontificato di Pio XII; quando però la secolarizzazione e una certa occidentalizzazione della Cina pre-maoista avevano svuotato di senso tali riti, che erano centrati sul culto degli antenati morti, sui riti stagionali e su quelli in onore di Confucio.
Come noto, la posizione sul tema vide contrapporsi tra ‘600 e ‘700 i gesuiti da un lato (che intelligentemente riuscirono a trovare una sponda nel potere imperiale cinese su questo punto) e i francescani e i domenicani dall’altra. Ma – come nota la storiografia più accorta – la differente posizione su tali riti trovava la propria spiegazione nei diversi contesti in cui la missione gesuitica e quella domenicana e francescana operarono. Mentre programmaticamente l’opera del Ricci e dei suoi successori era rivolta all’inserimento di tale opera missionaria nei gangli del potere imperiale – presso i quali tali riti erano chiaramente piegati ad una formalità soltanto civile – la missione di francescani e domenicani era rivolta alle popolazioni anche più umili, dove tali riti mantenevano un chiaro contenuto religioso; in questo secondo caso, secondo una prassi missionaria che caratterizzò, ad esempio, anche la missione cappuccina in Tibet a inizio ‘700.
La questione è capitale si diceva. Se la fede cristiana si incontra con religioni tradizionali che hanno subito una forma di “civilizzazione”, essa saprà inserirsi con maggiore facilità nel contesto in cui opera la missione, senza richiedere strappi in vista della conversione. Ma se essa si incontra con riti che mantengono la propria caratura religiosa, allora essa sarà spinta a sottoporre a giudizio tale religiosità e a verificarne la sua compatibilità con la fede cristiana. Ci pare che queste considerazioni abbiano non poca rilevanza anche per l’attuale contesto pluralistico in cui si trova inevitabilmente a operare il cristianesimo oggi.