di Stefano Liccioli • Quante volte abbiamo sentito dire che “un’immagine vale più di mille parole”. Certamente un’immagine, per certi versi, può essere più esplicita ed evocativa di un testo scritto o di un discorso orale, ma comunicare per iscritto non è la medesima cosa che farlo, per esempio, attraverso delle foto. Se è vero, parafrasando Marshall McLuhan, che il “mezzo è il messaggio” cambiano, per certi versi, i contenuti espressi, ma soprattutto differiscono i processi cognitivi che sono alla base delle due diverse modalità comunicative.
Questa riflessione mi è stata suscitata dal fatto che, soprattutto le nuove generazioni, mi sembrano privilegiare la comunicazione iconica rispetto a quella scritta, incoraggiati da social network come Instagram o Tik Tok più adeguati a veicolare immagini o video piuttosto che parole. Per non citare Bereal, il “nuovo” social (nato nel 2020) che favorisce interazioni tra i propri contatti (preferisco chiamarli così piuttosto che amici o amiche) pubblicando la propria foto e quella di ciò che ci circonda nel momento in cui arriva la notifica che ci chiede di condividere quello che siamo, lì dove siamo: così, per essere reali.
Senza entrare troppo nei tecnicismi (anche perché non ne ho le competenze specifiche) è abbastanza evidente, però, che il nostro modo di pensare quando dobbiamo scrivere è estremamente diverso da quando comunichiamo mediante le immagini. Infatti nel primo caso, secondo gli esperti di neuroscienze, si attiva una forma di pensiero di tipo logico-sequenziale, richiesta dalla forma stessa della verbalità che esige una strutturazione nel tempo e il rispetto di regole logico-formali. Nel secondo caso, invece, la trasmissione delle informazioni è più diretta, immediata. Attenzione, non sto parlando del pensiero per immagini che è, comunque, un’altra forma di congettura, sempre diversa da quello verbale logico-sequenziale e più associabile ad una rappresentazione pittorica (ad esempio quando ricordiamo alcuni momenti di un viaggio). Quello a cui mi sto riferendo è ciò che avviene quando, troppo spesso, si rinuncia alla comunicazione scritta preferendo quella iconica, in nome di una maggiore rapidità ed efficacia nel trasmettere quello che si vuol dire. Ma si tratta, a mio parere, di una rinuncia non priva di conseguenze negative: usare il linguaggio scritto ci porta a pensare alle parole da scegliere, ad immedesimarsi in chi le leggerà ed a ipotizzare come le interpreterà, assumendo il suo punto di vista. È l’esercizio del pensiero che non può fare a meno delle parole perché, tra le altre cose, esse creano mondi, come sostiene il filosofo Nelson Goodman e, facendogli idealmente eco Paolo Cognetti autore del recente bestseller “Le otto montagne”, «povere parole, poveri pensieri». Su questo aspetto è intervenuto anche il filosofo Umberto Galimberti secondo il quale «il pensiero è fatto di parole, per cui, più termini conosci è più ricco sarà il tuo pensiero». Ed agli insegnanti l’autore italiano ricorda:«Bisogna far parlare i giovani in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero».
C’è un altro aspetto che voglio prendere in considerazione. I social network oltre ad abituare gli utenti a comunicare più con le immagini che con le parole (con tutto ciò che ne consegue), sono regolati da algoritmi, in sostanza, hanno il compito di capire quali siano le preferenze e gli interessi di ogni utente per proporgli contenuti attinenti e utili a soddisfare le sue esigenze. In questo modo, però, gli utenti si abituano a confrontarsi solo con ciò che piace, con ciò che interessa, evitando tutte le possibili dissonanze. D’altronde si tratta della logica della pubblicità che vuol far conoscere ciò che incontra i nostri gusti, per fini commerciali. Ma qui in ballo c’è la nostra capacità di confrontarci non solo con ciò che ci aggrada o con cui siamo d’accordo, ma anche e soprattutto con ciò che è divergente dai nostri pensieri e dalle nostre posizioni.
Il tanto citato spirito critico che la scuola dovrebbe far crescere nei giovani si sviluppa nella misura in cui questi incontrano e si confrontano con gli altri, in particolare con coloro che hanno idee diverse da loro. A tal proposito ho trovato appropriata questa riflessione del filosofo Bruno Mastroianni che prende spunto proprio dai social media. Egli afferma:«Sui social chi si confronta – anche con chi è maldisposto – migliora se stesso e affina ciò che pensa, perché lo mette alla prova. Chi rinuncia al confronto invece si accontenta di ciò che ha e lo difende d’ufficio. Il primo si muove e progredisce, il secondo non può che restare fermo e ostile».