di Stefano Tarocchi · I lettori abituali dei Vangeli conoscono l’episodio della trasfigurazione di Gesù a Pietro Giacomo e Giovanni narrato in tutti e tre i vangeli sinottici (Mc 8,27-30; Mt 16,13,20; Lc 9,18-21), con caratteristiche comuni ma anche tipiche di ciascuno degli autori.
Molto meno conosciuto è un riferimento di questo straordinario episodio ad un passaggio della seconda lettera di Pietro.
Questo scritto fu composto da un cristiano anonimo del II secolo, che conosce le lettere di Paolo: si legge infatti: «la magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina» (2 Pt 3,15-16)
L’autore si ispirò alla figura e all’insegnamento di Pietro per trasmettere il suo messaggio ai suoi lettori, allo scopo di mettere in guardia i cristiani contro i falsi maestri che minacciavano la loro fede, negando fra l’altro il ritorno del Signore, visto l’apparente ritardo.
Ecco il testo, inserito all’interno del suo immediato contesto: «fratelli, cercate di rendere sempre più salda la vostra chiamata e la scelta che Dio ha fatto di voi. Se farete questo non cadrete mai. Così, infatti, vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo. Penso, perciò, di rammentarvi sempre queste cose, benché le sappiate e siate stabili nella verità che possedete. Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose. Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli, infatti, ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2 Pt 1,10-18).
Non è cosa semplice stabilire la fonte di questi due versetti (2 Pt 1,17-18), che riprendono la teofania del monte su cui Gesù si è rivelato ai suoi discepoli, già raccontata nei vangeli sinottici.
Nel testo dei Vangeli l’episodio della trasfigurazione precede di poco (Mc 9,2 e Mt 17,1: «sei giorni dopo»; Lc 9,38: «circa otto giorni dopo») la professione di fede di Pietro, avvenuta nei villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, nel nord della Galilea. Gli evangelisti fanno emergere il riferimento alla teofania del battesimo, che apre la missione pubblica di Gesù e che presenta elementi analoghi (Mc 1,9-11; Mt 3,13-17; Lc 3,21-22).
La teofania di Gesù sulla montagna apre invece il cammino verso Gerusalemme e la sua passione e risurrezione. Tanto è vero che in quel determinato contesto si susseguono gli annunci della passione (vedi Mc 8,31-38), che contengono ossia un modello di Messia molto diverso da quello che i discepoli vorrebbero attendersi. Questo è ancora più vero perché Gesù impone un silenzio sul suo messianismo, per evitare ogni equivoco devastante.
Accanto a Gesù, i protagonisti sono proprio Pietro e due discepoli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo.
Mentre però i Vangeli parlano di trasfigurazione, e si concentrano sul volto di Gesù e sulle sue vesti, il solo Luca parla della «gloria» (Lc 9,32), come la lettera di Pietro. Fra l’altro Pietro non è rappresentato come sconvolto da ciò che vede, ma molto attento all’evento: «non siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate ma perché siamo stati testimoni oculari – ecco il riferimento a Pietro – della sua grandezza» (2 Pt 1,16). L’autore anonimo dello scritto è attento a dire che l’avvenimento non è un racconto costruito da una mente unicamente umana, un mito – in greco c’è proprio questa parola! – come il prodotto di una intelligenza artificiale ante litteram.
Inoltre, la voce divina, descritta in quanto proviene dalla «maestosa gloria» (2 Pt 1,17), ossia dalla gloria della maestà divina, riprende un elemento della tradizione battesimale: Gesù non è soltanto il Figlio ma anche il Figlio amato.
Inoltre, si parla della «potenza e la venuta – ossia della venuta potente – del Signore nostro Gesù Cristo» (2 Pt 1,16): è questo di fatto il significato della trasfigurazione com’è narrata nella lettera di Pietro. Per questa ragione alcuni autori hanno voluto vedere nell’episodio della trasfigurazione come una manifestazione di Gesù risalente alla fase che segue la risurrezione.
Sulla medesima lunghezza d’onda, sempre all’interno della tradizione riferita a Pietro, troviamo anche un apocrifo, l’Apocalisse di Pietro – apocrifo greco della prima metà del II secolo, da cui deriva anche un testo del IV secolo scritto in lingua copta e di natura gnostica, che ambienta l’evento sul monte degli Ulivi, in cui Gesù riprendendo immagini della tradizione evangelica spiega il suo ritorno come Figlio dell’Uomo. La manifestazione si sposta quindi su un’altra montagna santa, dove due uomini gloriosi («Mosè, Elia, Abramo, Isacco, Giacobbe») si mostrano accanto a Gesù, che al termine viene innalzato al cielo dalla voce divina.
C’è però anche un testo di non facile interpretazione che troviamo nel Vangelo di Marco: «in verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza» (Mc 9,1). Il Vangelo è seguito da altre tradizioni della Chiesa primitiva.
In conclusione, per rifarsi alla complessità di queste tradizioni possiamo intravedere un modo di trasmettere quanto è avvenuto a Gesù nella sua trasfigurazione, che apre all’altro tema maggiormente sentito al tempo – siamo agli inizi del secondo secolo – della definizione più esatta della figura di Gesù. In particolare, l’apocrifo attribuito a Pietro insiste sulla ricompensa ai giusti e la punizione ai malvagi.
Proprio nell’Apocalisse di Pietro viene assegnato a Gesù un ruolo da parte di Dio, che va oltre la sobrietà della narrazione evangelica, per raggiungere quelle forme espressive tipiche delle apocalissi e dei tempi in cui vengono composte. Tutti questi testi, infatti, sono stati inseriti nel canone dei libri ispirati non senza molte difficoltà.