di Leonardo Salutati · Nel fascicolo dello scorso febbraio 2023, “Aggiornamenti Sociali”, la rivista mensile dei gesuiti di approfondimento e analisi sulle tematiche sociali, politiche, ecclesiali italiane e internazionali, tra le più autorevoli, ha rilanciato un articolo del gesuita Christian Mellon, specialista del pensiero sociale della Chiesa e membro del “Centro di Ricerca e Azione Sociale” (Ceras) francese, pubblicato lo scorso ottobre 2022 in un’altra importante rivista: la svizzera “Choisir” sempre dei Gesuiti.
L’articolo, intitolato “Esiste la guerra giusta? La Chiesa di fronte a una domanda ancora cruciale”, dopo aver esposto con puntualità il pensiero della chiesa sull’argomento, riflette sull’invito di “Gaudium et spes” a «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova» (n. 80), affermando che «il magistero contemporaneo considera ancora attuale l’apparato concettuale sviluppato nel corso dei secoli a proposito della guerra giusta, almeno fino all’avvento di papa Francesco».
L’affermazione ci pare che non renda ragione dello sviluppo della riflessione magisteriale a partire da “Pacem in terris”, ma soprattutto che non consideri adeguatamente un passaggio fondamentale di “Pacem in terris”, di cui ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario dalla pubblicazione, che neppure Papa Francesco sembra aver ben presente, considerato il tenore delle sue affermazioni riportate da Mellon.
Il teologo Enrico Chiavacci insegnava che la lettura critica e scientifica dei documenti ufficiali della Chiesa avrebbe dovuto sempre essere fatta nella lingua di pubblicazione del documento ufficiale che, per “Pacem in terris”, è il latino. Ebbene al n. 67 dell’enciclica, la traduzione italiana così come riportata sul sito della Santa Sede e ripresa dal n. 497 del “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, non è fedele al testo ufficiale latino. Si traduce infatti il «Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda» con «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», mentre letteralmente la traduzione è: «In questa nostra epoca che si gloria della potenza atomica è estraneo alla ragione che la guerra sia ormai uno strumento adatto per riparare la legge violata». La differenza è sostanziale per i seguenti motivi: 1) nel latino non esiste il quasi, dire quasi significa che un po’ è possibile; 2) si usa il verbo “pensare” che in latino non c’è, trasformando l’affermazione in un fatto soggettivo che però non lo è; 3) sparisce il “gloriatur” (si gloria), sottolineatura ironica del testo latino; 4) l’espressione «la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia» è vaga, il latino parla di «iura violata». È questo un particolare fondamentale, perché i «diritti violati / iura violata» rinvia ai “diritti violati di uno stato”, la causa più importante e più facilmente invocabile nell’elenco delle condizioni di “giusta causa” della “Dottrina della guerra giusta”, che possono essere di ogni tipo: diritti economici; diritti allo sfruttamento di risorse naturali; diritto al passaggio per uno stretto; diritto all’onore dello stato o della bandiera; diritto all’integrità territoriale e alla sovranità; diritto a non essere attaccati, ecc., praticamente vi può rientrare tutto!
In sintesi, il tenore dell’affermazione latina dichiara la guerra “immorale” per difendere i diritti violati di uno stato. Infatti nell’ambito della “legge naturale”, che è quello di Giovanni XXIII e di “Pacem in terris”, «estraneo alla ragione / irragionevole» equivale a “immorale”, per cui da “Pacem in terris” in poi è praticamente impossibile parlare di “guerra giusta”, e di fatto “Gaudium et spes”, come correttamente riporta Mellon, non ne parla, proponendo piuttosto di acquisire «una mentalità completamente nuova» per costruire la pace, così come insegna “Pacem in terris” nello sviluppo dei quattro su cinque dei suoi capitoli.
Su questa linea, poi, si muove tutto il Magistero successivo da Paolo VI fino a Francesco, con Giovanni Paolo II che è il più risoluto nel ripudiare la guerra come strumento atto a risolvere i conflitti, posizione che è emersa chiaramente con la prima guerra del Golfo del 1991 definita «avventura senza ritorno» (Giovanni Paolo II, 1991), nella sua accorata invocazione «Mai più la guerra!» (Centesimus annus n. 52) e nelle sue continue e ripetute sollecitazioni a «costruire un mondo di pace e superare il criterio barbaro e disumano del ricorso alla guerra come mezzo per dirimere le controversie. È tempo ormai di affermare con forza: “Basta con la guerra”! Guerra giusta e doverosa è fare guerra alle guerre» (Giovanni Paolo II, 1995).
Casomai c’è da dire che, pur nella linea comune di risoluto ripudio della guerra di tutti i successori di S. Giovanni XXIII, non è stata ulteriormente sviluppata, neppure, al momento, con l’attuale pontificato, l’affermazione inequivoca di “Pacem in terris” che la guerra è «alienum a ratione», «estranea alla ragione», «immorale».