La giustizia evangelica e la giustizia legale, sintesi o contrapposizione?
di Francesco Romano • Gesù rivela la nuova giustizia la cui misura è paradigmatica: “Il re dirà loro: tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 5, 17). L’annuncio del nuovo Regno si accompagna, così, alla rivelazione della nuova giustizia dove anche il minimo tra i fratelli, defraudato di ogni diritto naturale, viene investito della stessa dignità regale del Figlio di Dio. La giustizia legale scopre nella giustizia evangelica, cioè nella carità, fino al paradosso dell’amore per i propri nemici, la novità assoluta del superamento della giustizia degli scribi e dei farisei fino ad amare i propri nemici.
La giustizia umana è perfezionata dalla giustizia evangelica nella promozione del prossimo riconosciuto come fratello. Nella logica del Regno la carità non esclude la giustizia: il diritto è alla base dell’uguaglianza, ma solo la carità la perfeziona trasformando l’uguaglianza in fraternità.
La giustizia legale nel dividere in parti opera una riduzione del bene, la giustizia animata dalla carità accresce il bene quanto più è condiviso. La logica del Regno consiste nell’essere disposti a rinunciare ai propri diritti e nel desiderare di “portare i pesi gli uni degli altri”. Anche la giustizia sociale può trovare solo nella carità la risposta più efficace come ha affermato Giovanni Paolo II quando ha dichiarato che solo nell’amore sociale vi sarà la salvezza del mondo.
Carità e giustizia non si contrappongono, ma si integrano a vicenda. L’amore verso il prossimo si concretizza prima di tutto nel fargli giustizia e nel rispettare i suoi diritti. La carità è il coronamento del diritto e la conoscenza dei veri bisogni altrui come insegna San Paolo: “la carità rifiuta l’ingiustizia, ma si compiace della verità” (1 Cor. 13,6). Nessun diritto può essere negato in nome della carità. Chi vuol essere caritatevole, prima di tutto deve essere giusto. Principio della carità è ciò che il Signore chiama “fame e sete di giustizia” (Mt 5, 6).
Senza l’amore concreto per il prossimo e per la verità, la giustizia rimane una nozione astratta che sconfina nel fariseismo, ma, come scrive S. Giovanni, “non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 4, 18). La carità fa progredire la giustizia perché quando scopre il prossimo che ha reali bisogni, lo soccorre pur senza che questi abbia alcun diritto da reclamare, come insegna la parabola del buon Samaritano.
La carità, tuttavia, non è un modo per rimediare all’ingiustizia né una giustificazione per dispensare dalla giustizia, ma la contiene come sua espressione prima e come suo momento essenziale. In questo senso Pio XII scriveva: “per essere autenticamente vera la carità deve sempre tener conto della giustizia da promuovere e mai contentarsi di mascherare i disordini e le insufficienze di un ingiusto stato di cose”. La carità supera la giustizia solo la suppone e mai sostituendosi a essa. La carità non può essere un alibi per creare o mantenere una condizione di ingiustizia. Il povero deve essere soccorso nel suo bisogno particolare, ma la vera carità è aiutare ad uscire dalle cause che rendono schiavi della povertà perché, come insegna S. Tommaso, “la povertà non è buona per se stessa, ma solo nella misura in cui libera l’uomo da ciò che gli impedisce di attendere alle cose di Dio” (S. TOMMASO, C. Gent. III, 133).
La carità non nega il diritto del prossimo, ma va oltre la stretta giustizia, anzi la perfeziona. Essa inizia là dove la giustizia ha terminato il suo compito. Celebre a tal riguardo è il pensiero del Papa Leone XIII: “questa legge di scambievole carità, che è quasi un perfezionamento di quella di giustizia, non solo impone di dare a ciascuno il suo, e di non osteggiare i diritti di alcuno, ma anche di favorirsi l’un l’altro” (LEONE XIII, Encicl. Graves de communi, 18 gennaio 1901, in I. GIORDANI, Le encicliche sociali dei papi, vol. I, p. 230). L’elemosina non deve essere un alibi per donare al prossimo quanto già gli spetta per giustizia.
Prima opera di carità è imparare a soddisfare gli obblighi naturali di giustizia per poter poi penetrare nella vita del fratello e amarlo come si ama se stessi, pienezza della legge è l’amore. Non ciò che avanza sia oggetto di elemosina, ma ciò che è dentro quella coppa e quel piatto che i farisei puliscono all’esterno, frutto di rapina e iniquità, convinti di essere giusti perché pagano puntualmente la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, ma poi trasgrediscono la giustizia e l’amore di Dio. Perché anche l’interno sia mondo, il Signore dice di dare in elemosina non il superfluo, ma ciò che vi è dentro (Lc 11, 41).
Su questo punto, insegna San Tommaso: «non bastano i precetti della giustizia per conservare la pace e la concordia tra gli uomini, ma bisogna che sia tra essi anche l’amore. La giustizia fa sì che gli uomini non siano d’inciampo l’un l’altro, ma non spinge l’uomo a portare aiuto ai suoi simili in ciò di cui essi abbisognano, appunto perché questi potrebbero aver bisogno di ciò a cui non si è tenuti a dare per giustizia. Fu necessario quindi, perché gli uomini si aiutassero a vicenda, imporre a essi il precetto della mutua carità, per cui si è tenuti ad aiutarsi l’un l’altro anche in quelle cose alle quali non si è tenuti per debito di giustizia» (S. TOMMASO, C. Gent., III, 130).
Per questo la carità non solo presuppone la giustizia, ma anche la integra nel valutare quanto offrire al prossimo per amore di Dio, commisurato sul bisogno altrui e non sul “mio superfluo”. La carità costruisce una più perfetta giustizia.