di Francesco Romano • Di fronte alla tendenza culturale che cerca di privatizzare il rapporto interpersonale dell’amore coniugale fino a sfociare gradualmente nella libera convivenza, la Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, riconosce la famiglia quale elemento primordiale e fondamentale della società civile. Per questo motivo il patto coniugale da cui scaturiscono il matrimonio e la famiglia si inserisce nel tessuto ordinato della convivenza umana manifestando in tal modo la loro stessa natura comunitaria e sociale (cfr. GS 52, n. 2).
La vita stessa della Chiesa, per sua natura, è parte integrante del tessuto ordinato della convivenza umana ed è, per questo, chiamata a impegnarsi, senza prevaricazioni o imposizioni, affinché l’umanità tenda verso lo stesso fine che prende concretezza nel bene comune di ogni società.
Sia nel corpo sociale della Chiesa che nel corpo sociale dello Stato, al matrimonio e alla famiglia è riconosciuto un ruolo di edificazione e strutturazione. Per la prima volta il Concilio Vaticano II qualifica la comunità coniugale come Chiesa domestica (LG 11, n. 3), santuario domestico della Chiesa (AA 11, n. 3). Allo stesso modo l’ordinamento societario riconosce il ruolo che gioca il matrimonio, prima cellula della società, nella costruzione dell’uomo e della donna come membri della comunità politica. Nondimeno, anche il Concilio inserisce la famiglia, vista nella sua dimensione secolare, nella società civile quale elemento primordiale e fondamentale di essa (cfr. GS 52, n. 2), prima e vitale cellula della società (AA 11, n. 2).
Tanto basta perché la Chiesa, sia come istituzione sia nelle sue componenti laiche e secolari, non rinunci né sia privata del dovere di cercare il confronto attraverso il suo insegnamento e di dare il suo contributo all’edificazione del corpo sociale, in prospettiva del bene comune, nell’affermazione di valori condivisibili in un sistema pluralistico che caratterizza la società contemporanea per l’alto grado di complessità.
Il Papa Benedetto XVI, recependo siffatte obiezioni, nel Discorso ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati della Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2006 ha fatto questa riflessione: “Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora non possiamo solo che rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della loro grande cultura di fede, non hanno forse diritto di pronunciarsi in tutto questo? Non è piuttosto il loro, il nostro dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima è immagine di Dio?”.
La Chiesa ha sempre percepito con chiarezza la funzione sociale del matrimonio, fin dai primi secoli quando, senza ancora giungere alla sua istituzionalizzazione, si limitava ad aiutare i coniugi cristiani a vivere la loro unione in conformità al vangelo. Elementi cultuali di ispirazione pagana, usanze e costumi propri della cultura con cui un popolo interpreta il matrimonio, continuavano a sopravvivere nelle prime comunità cristiane. Anzi, proprio evitando lo scontro culturale diretto, la Chiesa riusciva a far penetrare il proprio modello di vita coniugale nella società pagana che, mentre ne restava affascinata, lasciava decantare quegli elementi che contrastavano con l’adesione alla fede cristiana.
Fin dalle origini, pertanto, la Chiesa non si è mai chiusa in una concezione privatistica del matrimonio la cui funzione sociale si rivelò in modo singolare nell’azione evangelizzatrice di riscatto degli schiavi dalla loro condizione di morte sociale. Il matrimonio cristiano fu la prima espressione della pari dignità riconosciuta a tutti gli uomini, superando la dicotomia operata dalla legislazione civile romana tra contubernium degli schiavi e connubium dei liberi cittadini.
D’altra parte la Chiesa ha sempre cercato il confronto con i diversi contesti culturali e, presentandosi con la sola provocazione profetica cristiana e lo spirito evangelico di farsi lievito, è sempre riuscita a superare l’impatto con serenità.
Ancora oggi il coinvolgimento della Chiesa nel dibattito sulle politiche familiari non può venire meno. Tuttavia, la problematica si è estesa al riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali ed eterosessuali conseguito in alcuni paesi europei. L’interessamento della Chiesa è connaturale alla sua missione e al diritto universale alla libertà di espressione, non un attentato alla laicità dello stato.
Qualsiasi organizzazione statuale, indipendentemente dalla sua ispirazione ideologica, ha sempre ravvisato nella famiglia la base naturale della società e per entrambe, nella reciproca interazione, la diretta derivazione del proprio benessere. La famiglia offre l’esempio di esperienza più autentica di socialità nella reciprocità e integrazione dei coniugi attraverso un rapporto fatto di relazione e gratuità. Pertanto, la tutela del matrimonio e della famiglia deve interessare e coinvolgere tutte le componenti sociali, senza alcun pregiudizio.
È da sottolineare, infatti, che nelle società democratiche l’intervento dello Stato deve svolgere una funzione di garanzia, non come spartizione ad libitum di un bene secondo la logica individualista e antisociale, bensì di tutela del bene comune inteso come fonte di promozione del singolo cittadino e della società nel suo complesso, sulla base di valori condivisi e radicati nella coscienza di un popolo.
L’interessamento legittimo e doveroso da parte dello Stato, a proposito di matrimonio e famiglia, deve evitare due tentazioni estremiste che vanno dallo Stato signore della vita etica al fenomeno contemporaneo proprio dell’individualismo radicale e libertario.
A seguito della dissoluzione politico-religiosa dell’Europa medievale, la competenza dello Stato sul matrimonio è connessa all’idea di libertà religiosa. L’introduzione del matrimonio civile per le minoranze religiose, non riconosciute come ufficiali, consentiva loro di celebrare matrimoni con effetti giuridici nell’ordinamento civile e conseguire il nuovo status familiare alla pari di coloro che appartenevano alla confessione religiosa dello stato. Nell’Olanda del 1580, per esempio, il matrimonio civile facoltativo nasceva come opportunità per i dissidenti religiosi.
Con il prevalere dell’assoluta supremazia dello stato sui sudditi, fino a rendersi padrone anche della vita etica, si assiste al passaggio dal matrimonio civile facoltativo, nato come strumento di libertà, al matrimonio civile obbligatorio, limitatore della libertà con l’imposizione di un modello di matrimonio ideologizzato per l’osservanza dei valori imposti dalla legge civile. L’Inghilterra di Cromwell fu il primo paese a introdurre nel 1653 il matrimonio civile obbligatorio. Sarà la rivoluzione francese a fornire il modello della legislazione statale moderna a partire dal 1791 con la costituzione rivoluzionaria francese che introduce per qualsiasi cittadino, senza distinzione di fede religiosa professata, il matrimonio civile quale unico istituto capace di produrre effetti civili. L’idealismo hegeliano ispira lo Stato etico nella legislazione civile del matrimonio come dovere civile. Il matrimonio, quale istituto etico, viene pertanto a inserirsi nell’eticità dello stato. Famiglia e Stato vengono concepiti nella loro forma di eticità naturale e appartenenti a un ordine necessario. Il matrimonio, quindi, è visto come un vincolo etico distinto e contrapposto al fluttuare della volontà individuale.
In Italia, con la promulgazione del Codice Civile del 1865, lo stato liberale introdusse il primo matrimonio laico e unico per tutti i cittadini, rivendicando a sé la materia matrimoniale per la grande rilevanza morale e sociale che riconosceva a tale istituto, ma senza una vera intenzione anticlericale. Infatti, la legislazione in materia matrimoniale civile dopo l’unità d’Italia è stata sempre vista nel suo insieme come la traduzione laica e liberale del matrimonio canonico. Si pensi, per esempio, al rifiuto del legislatore di introdurre l’istituto del divorzio nella normativa del negozio matrimoniale civile, a differenza dell’ordinamento francese. Si dovrà attendere il Concordato del 1929 per ritrovare la libertà di scelta della forma di celebrazione del matrimonio. In effetti, con il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio canonico, il matrimonio civile tornava a essere facoltativo.
La codificazione italiana del 1942 è improntata a una rigida concezione autoritaria e gerarchica dei rapporti familiari, dove tutto dipende dalla volontà del capofamiglia, dove figli e moglie sono accomunati in una posizione di subordinazione e inferiorità e dove nessun rilievo, o quasi, è riservato ai figli nati fuori del matrimonio. L’oggetto del diritto di famiglia è rappresentato dalla disciplina dei rapporti della cosiddetta famiglia nucleare, rappresentata dall’unione stabile di due soggetti e dalla loro prole legati da un intenso vincolo di solidarietà.
Ai nostri tempi assistiamo allo spostamento dell’asse della disciplina del matrimonio dalla sfera pubblicistica a quella sempre più marcatamente privatistica con il diffondersi di una certa ideologia propria dell’individualismo radicale e libertario.
Oggi, il modello civilistico e quello canonistico di matrimonio si sono talmente diversificati, più di quanto non lo fossero ai tempi in cui imperversava l’acceso anticlericalismo, passando progressivamente attraverso la normativa del negozio matrimoniale civile del 1942, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e le numerose posizioni assunte in dottrina e in giurisprudenza.
La preoccupazione della Chiesa e la sua sollecitudine pastorale si rivolgono oggi al profondo divario tra l’ideale di matrimonio e famiglia, espresso attraverso il proprio ordinamento giuridico canonico, e le scelte di vita in netta contraddizione portate avanti da molti cristiani.
Il riconoscimento nell’ordinamento statale del fenomeno sociale e di costume rappresentato dalla famiglia di fatto e dalla convivenza more uxorio, concorre progressivamente a modificare la coscienza sociale fino a far reclamare come istanza corporativa o di singoli gruppi la legittimazione per una molteplicità di altri modelli.
Si vanno facendo strada opzioni alternative al matrimonio. Il matrimonio e la famiglia sono un fatto propriamente umano. Dall’humanum che definisce il contenuto dell’istituzione matrimoniale e familiare, si è passati all’humanum inteso come pura creazione della libertà umana. In questo senso, Caffarra conclude che da una concezione del matrimonio come fondato su esigenze di “legge naturale” si è passati alla concezione del matrimonio fondato esclusivamente sul diritto di autodeterminazione individuale.
La linea di tendenza, già affermatasi in alcuni stati, è rappresentata dal passaggio dal matrimonio come istituzione naturale, preesistente a ogni legislazione positiva, a parvenze di esso, quali sono le unioni di fatto. L’istituto del matrimonio, portatore di una scala di valori radicata nella plurisecolare coscienza sociale collettiva, in brevissimo tempo viene affiancato, con il riconoscimento delle unioni di fatto, a un nuovo istituto giuridico come possibilità alternativa. Tale novità non può non generare ripercussioni nel corpo sociale.
La generazione della persona umana non è solo un fatto biologico che assicura la perpetuazione della specie o l’incremento demografico. Ad essa deve essere salvaguardata la dimensione familiare quale intima essenza ancora diffusa nel sentire comune e radicata nel significato antropologico. Lo sviluppo psicoaffettivo della persona, infatti, passa attraverso gli elementi portanti e strutturali della famiglia rappresentati dai ruoli familiari che vanno da quello di figlio, a quello di coniuge e di genitore attraverso i quali affiora la coscienza della propria identità. La famiglia, centro di valori relazionali, è percepibile a livello razionale prima ancora che di fede. Coniugalità e genitorialità devono essere salvaguardate.
La centralità del matrimonio nella struttura della comunità sociale deve essere vista nella stabilità che esso favorisce alla famiglia e nel rinnovamento delle generazioni. Anche su questo punto converge la rilevanza pubblica del matrimonio. In questo senso deve essere letto l’art. 29 della Costituzione della Repubblica Italiana dove il matrimonio è configurato come fondamento della famiglia essendo finalizzato alla realizzazione della società naturale alla quale concorre anche l’eventuale presenza di figli ai quali è intrinsecamente orientato il matrimonio. La giurisprudenza di legittimità al riguardo ha sottolineato che «la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio rappresenta […] un punto fermo di tutta la giurisprudenza costituzionale in materia ed è basata sull’ovvia constatazione che la prima è un rapporto di fatto, priva dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della seconda (cfr Corte Cost., sentenza 14 novembre 2000, n° 491). “Inoltre, «la convivenza di fatto è giuridicamente inapprezzabile concretandosi in un rapporto privo delle caratteristiche di certezza e di stabilità proprie della famiglia legittima specie ove si consideri che la coabitazione può venire a cessare unilateralmente e in qualsivoglia momento” (Corte Cost., sentenza 18 novembre 1986, n° 237).
Alla stessa riflessione razionale il matrimonio viene presentato dalla Chiesa nella sua intrinseca esigenza di “alleanza”, così come è stato strutturato nel progetto della creazione e poi elevato alla dignità di sacramento dal Signore. Se l’amore coniugale è l’essenza del matrimonio cristiano, esso tuttavia non và confuso con la mera affettività o spontaneità. La durata dell’unione non è subordinata al fluttuare dei sentimenti, all’affectio maritalis.
È evidente che la comunicazione affettiva non può essere istituzionalizzata. L’istituto del matrimonio, invero, istituzionalizza lo scambio del consenso, la scelta di vita, e conferisce stabilità a quel tipo singolare di rapporto che tanta rilevanza ha a livello personale e sociale. Il valore della stabilità del vincolo coniugale, che lo stesso diritto civile riconosce, nonostante la possibilità del divorzio, nel matrimonio canonico è un dato assoluto per legge di diritto divino. Il significato di questa irreversibilità, fissata radicitus dal Creatore, trova la sua spiegazione nell’essenza stessa del matrimonio e nella verità sull’uomo chiamato da Dio alla comunione.
Proviamo a immaginare cosa sarebbe l’amore di Dio per l’uomo se esso non fosse manifestazione di un impegno, di una promessa; se l’uomo non potesse esserne sicuro e dovesse con angoscia verificarlo e provarlo nella quotidianità della sua esistenza; se, in breve, non si fosse concretato in un vincolo vero e proprio, in un vincolo d’amore. Allo stesso modo, cos’è per l’uomo, per il coniuge, una manifestazione anche concreta, anche fisica, di affetto, se essa non ha alle spalle un impegno, un patto; se essa, in altre parole, non diventa amore coniugale, non diventa matrimonio? Di sicuro non sbaglia chi vede nel patto l’espressione più alta dell’amore, quella che sa correre il rischio della storia e della libertà, come l’ha voluto correre Dio; e vede nel rapporto, nel consortium, il luogo dove l’amore è provato, dove esso cresce e si dispiega per intero. (cfr. G. LO CASTRO, Il foedus matrimoniale come consortium totius vitae in Il matrimonio sacramento nell’ordinamento canonico vigente, Studi Giuridici XXXI, Libreria Editrice Vaticana, 1993, p. 87)