La carità è il fine e la forma della giustizia

281 500 Francesco Romano
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di Francesco Romano · San Paolo nell’inno alla carità si rivolge ai Corinti, convinti che l’ideale di perfezione stia nel possesso dei doni spirituali. La carità anche senza doni porta alla salvezza, mentre a nulla giovano i doni per la vita eterna senza la carità. Dopo aver enumerato quindici caratteri con cui la carità è contraddistinta, S. Paolo la indica quale via per eccellenza per esercitare tutte le virtù.

Nel pensiero di San Paolo la carità cristiana e la giustizia si compenetrano: la carità non cerca il suo interesse (1 Cor. 13, 5), non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia (I Cor 13, 6), non reca torto al prossimo (Rm 13, 10), non fatevi giustizia da voi stessi (Rm 12, 19).

È evidente, per questo, che la carità includa la giustizia, ma in nome della carità soprannaturale il cristiano deve disporsi ad accettare anche di rinunciare al suo diritto naturale di stretta giustizia. La carità cristiana fa crescere l’uomo nella dimensione soprannaturale e gli fa sperimentare la portata della nuova legge, l’amore compimento della legge.

L’amore naturale, fondato sulla solidarietà umana, viene superato dalla carità cristiana che ha la sua radice nell’amore di Cristo. Ogni riferimento al fratello diventa un riferimento a Cristo stesso da far dire a San Paolo: “peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo” (1 Cor. 8, 12).

Gli esempi di carità nella Chiesa diventano segni della presenza di Cristo. L’amore vicendevole è il vertice dell’attestazione di fedeltà del discepolo al Signore: “da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri” (Gv 13, 35).

La carità è la nuova legge dell’amore che diventa la strada per realizzare tutte le virtù, tra le quali anche quella della giustizia. Nella concezione cristiana il diritto si associa alla carità per meglio raggiungere le sue finalità giuridiche poiché “come dice l’Apostolo (I Tim. 1, 5) fine del precetto è la carità e tutta la legge ha lo scopo di promuovere l’amicizia degli uomini tra loro, o dell’uomo con Dio” (S. TOMMASO, Sum. Theol., I-II, q. 99, a. 1 ad 2).

Ogni legge, sia umana che divina, è solo un mezzo per sviluppare l’amicizia con Dio e tra gli uomini. In San Tommaso la carità è vista come amicizia, cioè un amore scambievole che include la benevolenza e la comunicazione di vita: “Charitas non solum significat amorem Dei, sed etiam amicitiam quandam ad ipsum; quae quidam super amorem addit mutuam redamationem cum quadam mutua communicatione, ut dicitur in VIII Ethic. Et quod hoc ad charitatem pertineat, patet per id quod dicitur I Ioan. 4, 16: Qui manet in charitate, in Deo manet, et Deus in eo”. Et I Cor. 1, 9, dicitur: “Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii eius”.

Da quanto detto ne deriva che la carità è il fine e la forma di tutte le virtù e, in particolare, della giustizia. La legge non ha valore per se stessa, ma è al servizio della carità nel coltivare le relazioni tra gli uomini e con Dio. Per questo, secondo il pensiero di San Paolo, coloro che non possiedono la legge, come i pagani, quando “per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori” (Rm 2, 14-15).

San Tommaso, commentando questo passo, dirà che i giusti, anche senza la legge esterna, tendono per se stessi a praticare la giustizia, poiché la carità li muove al posto della legge e li fa agire liberamente. La legge esterna fu necessaria solo per coloro che non sono inclini al bene, in questo senso, “la legge non è fatta per il giusto, ma per l’ingiusto” (1 Tim. 1, 9). La carità orienta allo stesso bene comandato dalla legge (Cf. S. TOMMASO, In Epist. Ad Galatas, V, lect. 5: “Nam charitas inclinat ad illud quod lex praecepit. Quia ergo iusti habent legem interiorem, sponte faciunt quod lex mandat, ab ipsa non coacti”.

Solo in Cristo la solidarietà umana, fondata sulla natura, è stata elevata al rango di fraternità divina, di charitas cristiana. Le virtù naturali, tra cui la giustizia, sono al servizio della carità che diventa la linea guida per la loro piena attuazione, come Cristo nei confronti della legge quando dice: “Non crediate che sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Per questo, dirà San Paolo, “l’amore è pieno compimento della legge” (Rm 13, 10). Il termine compimento evidenzia il suo significato di pienezza nel vocabolo pléroma. Lo stesso termine è usato da Gesù quando dice: «Io non sono venuto per abolire la legge, ma per portarla a compimento, pleróstai.

La carità costruisce una più perfetta giustizia. La carità non supplisce gli obblighi di giustizia, bensì mi sprona a riconoscere e ad affermare il diritto altrui anche a costo di dover rinunciare volontariamente al mio diritto; nel portare i pesi degli altri per ritrovare nelle mani del fratello l’aiuto a sostenere anche il peso che mi appartiene.

La carità non nega il diritto del prossimo, ma va oltre la stretta giustizia, anzi la perfeziona (se la vostra carità non supererà quella degli scribi e dei farisei…) Essa inizia là dove la giustizia ha terminato il suo compito. Celebre a tal riguardo è il pensiero del papa Leone XIII: “questa legge di scambievole carità, che è quasi un perfezionamento di quella di giustizia, non solo impone di dare a ciascuno il suo, e di non osteggiare i diritti di alcuno, ma anche di favorirsi l’un l’altro” (LEONE XIII, Encicl. Graves de communi, 18 gennaio 1901, in I. GIORDANI, Le encicliche sociali dei papi, vol. I, p. 230). L’elemosina non deve essere un alibi per donare al prossimo quanto già gli spetta per giustizia.

Prima opera di carità è imparare a soddisfare gli obblighi naturali di giustizia per poter poi penetrare nella vita del fratello e amarlo come si ama se stessi, pienezza della legge è l’amore. Illuminante a tale riguardo è il pensiero del Concilio Vaticano II: “Affinché tale esercizio di carità possa essere al di sopra di ogni sospetto e manifestarsi tale, si consideri nel prossimo l’immagine di Dio secondo cui è stato creato, e Cristo Signore, al quale veramente è donato quanto si dà al bisognoso; si abbia riguardo, con estrema delicatezza, alla libertà e alla dignità della persona che riceve l’aiuto; la purità d’intenzione non sia macchiata da ricerca alcuna della propria utilità o da desiderio di dominio; siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è dovuto a titolo di giustizia; si eliminino gli effetti, ma anche le cause dei mali; l’aiuto sia regolato in tal modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza esterna e diventino autosufficienti” (AA, 8, 5).

L’elemosina è il nobile gesto della carità quando risponde al grido di giustizia sociale che sale dal povero, dall’emarginato, dal reietto. Solo chi si immedesima nel bisognoso è capace di adempiere al precetto di amare il prossimo come se stesso.

Per questo l’elemosina suscitata dalla carità cristiana non è un semplice passaggio di beni da una mano all’altra, bensì una condivisione di vita, un gesto di comunione. Non ciò che avanza sia oggetto di elemosina, ma ciò che è dentro quella coppa e quel piatto che i farisei puliscono all’esterno, frutto di rapina e iniquità, convinti di essere giusti perché pagano puntualmente la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, ma poi trasgrediscono la giustizia e l’amore di Dio. Perché anche l’interno sia mondo, il Signore dice di dare in elemosina non il superfluo, ma ciò che vi è dentro (Lc 11, 41). Per questo la carità non solo presuppone la giustizia, ma anche la integra nel valutare quanto offrire al prossimo per amore di Dio, commisurato sul bisogno altrui e non sul “mio superfluo”.

Su questo punto, insegna San Tommaso: “non bastano i precetti della giustizia per conservare la pace e la concordia tra gli uomini, ma bisogna che sia tra essi anche l’amore. La giustizia fa sì che gli uomini non siano d’inciampo l’un l’altro, ma non spinge l’uomo a portare aiuto ai suoi simili in ciò di cui essi abbisognano, appunto perché questi potrebbero aver bisogno di ciò a cui non si è tenuti a dare per giustizia. Fu necessario quindi, perché gli uomini si aiutassero a vicenda, imporre a essi il precetto della mutua carità, per cui si è tenuti ad aiutarsi l’un l’altro anche in quelle cose alle quali non si è tenuti per debito di giustizia” (S. TOMMASO, C. Gent., III, 130).

La carità trasforma l’elemosina in gesto di amore e di condivisione delle svariate situazioni umane. Significativa, per questo, la ricompensa promessa ai misericordiosi “perché essi troveranno misericordia” (Mt 5, 7), e a coloro che avranno conservato la carità vicendevole, “perché la carità copre una moltitudine di peccati” (I Pt 4, 8). Ma ancora più esplicita nel libro di Tobia è la rivelazione dell’arcangelo Raffaele circa gli effetti salvifici che derivano dall’elemosina e dalla giustizia: “buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia. Meglio il poco con giustizia che la ricchezza con ingiustizia. Meglio è praticare l’elemosina che mettere da parte oro. L’elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l’elemosina godranno lunga vita. Coloro che commettono il peccato e l’ingiustizia sono nemici della propria vita” (Tb 12, 8-10).

La carità quando pretende di prendere il posto della giustizia diventa ipocrisia, mistificazione della virtù, condanna alla schiavitù del bisogno, umiliazione profonda, perpetuazione della povertà elevata a istituzione. La carità non si sostituisce alla giustizia, ma è il fine e la forma di essa.

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Francesco Romano

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