«Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) 

di Stefano Tarocchi · Nel tempo di Pasqua, tre domeniche dopo la festa, la liturgia presenta un brano tratto dal decimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni. Si tratta del discorso di Gesù che ha il suo culmine nel versetto 11, quando Gesù dice: «Io sono il buon pastore». E aggiunge: «il buon pastore – il pastore vero – dà la propria vita per le pecore». (Gv 10,11). 

Questo per non parlare delle due parabole, dei Vangeli sinottici: Matteo 18,12-13 (la pecora che si è smarrita) e Luca 15,4-6 (la pecora che il pastore ha perduto). 

Ma è proprio a causa di Giovanni che la quarta domenica di Pasqua è conosciuta come la domenica del buon Pastore

Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlasse loro».  

Qui vorremmo mettere in luce un aspetto particolare che configura la persona di Gesù, pastore vero: egli è la porta delle pecore, ed è pastore proprio perché è anche la porta.  A giudicare dal termine che è stato scelto in greco, si tratta della porta della casa.  

Se è vero, come annota il Brown, che in alcune frange religiose il titolo di “porta” è stato applicato a leader religiosi, per indicare la guida alla conoscenza, questo non vale per il Vangelo. 

Gesù è pastore e perciò «le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,3-5).  

Vieni così a crearsi un rapporto straordinario fra le pecore e il pastore: questi conosce una per una le sue pecore e le chiama per nome, ed esse ascoltano la sua voce. Pertanto, fuggiranno dagli estranei che si evidenziano soltanto per un potere totalmente negativo nei confronti delle pecore: «rubare, uccidere e distruggere» (Gv 10,10). 

A questi estranei si aggiunge anche il mercenario, colui che è stipendiato per guidare delle pecore che non gli appartengono, e che le abbandona proprio quando il loro nemico naturale, il lupo, le assalta (così Gv 10,12). Il mercenario, dunque, è descritto come la totale opposizione al pastore: colui che fallisce proprio nel momento decisivo della sua azione, né tantomeno dà la sua vita. 

Questo ancor più vero perché Il Cristo che è il pastore quello vero, non ha solo le pecore del suo gregge, ma anche altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Al popolo di Israele, si aggiungono anche i popoli pagani, 

Tutto questo è vero, perché a differenza di altre regioni geografiche, le pecore di quella terra pascolano insieme ad altre pecore, greggi con greggi: perciò il pastore deve utilizzare la sua “familiarità” con le singole pecore – letteralmente chiamare “per nome le sue pecore” – per riprendersi le sue pecore che pascolano insieme ad altri greggi. Ossia, come dice Giovanni, ogni pecora «entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9): la pienezza della vita, che ricevono grazie al pastore vero. 

In altre parole, se Cristo è la porta, egli è al tempo stesso la chiave per raggiungere il Padre.  

È a questo che conduce la sua azione come porta delle pecore e come pastore.