Felicità come “Giusto di Dio” nell’ Opera a ben vivere di Sant’Antonino Pierozzi
La felicità falsa è data dall’inganno delle ricchezze, degli onori mondani, del potere, del piacere, del salutismo, della conoscenza originata dalla curiosità (Pars. IV, tit. 7, cap. 4).
La felicità perfetta è il fine ultimo dell’uomo. Essa, in primo luogo, è Dio stesso, bene increato, beatitudine oggettiva e causativa, il solo che con la sua bontà infinita può appagare la volontà dell’uomo. In secondo luogo, essa è il raggiungimento o il godimento del fine ultimo, beatitudine adeptiva vel fruitiva. «La beatitudine, dunque, quanto all’oggetto e alla causa è qualcosa di increato, quanto invece alla sua essenza è qualcosa di creato». (Pars. IV, tit. 7, cap. 7, § 1).
Nell’Opera a ben vivere, un piccolo trattato spirituale scritto in volgare, composto tra il 1450 e il 1454 in risposta alle richieste di Dianora Tornabuoni, zia di Lorenzo il Magnifico, Antonino non utilizza, in verità, la parola felicità, né la parola beatitudine, sebbene offra spazio all’aggettivo beato, nelle varie declinazioni, e al verbo beatificare. L’esperienza della felicità imperfetta e dispositiva mi pare tuttavia il focus, per così dire, dell’Opera, finalizzata a guidare la zelante Dianora a un «qualche calore e gusto di Dio», come risulta chiaramente dalle prime parole del prologo:
Si può ipotizzare che l’espressione «calore e gusto di Dio» fosse già nella richiesta di Dianora Tornabuoni, e che il vescovo Antonino l’abbia accolta e valorizzata nella sua opera. Ma il concetto di «gusto spirituale», collegabile al dono della Sapienza, è in realtà già significativamente presente nella Summa che cita, tra l’altro, a più riprese il Sal. 33,9: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore», come quando, a proposito appunto della Sapienza, fa riferimento all’opera di Ugo di San Vittore (Pars IV, tit. 10, cap. 3, § 5).
Il «gusto di Dio», ovvero la concreta possibile esperienza della felicità imperfetta e dispositiva, appare effetto e causa, in una circolarità virtuosa, del ben vivere, a cui il vescovo fiorentino, nell’Opera, vuole programmaticamente introdurre.
L’abbrivio per articolare le fasi dell’impegno a vivere bene Antonino lo trova, infatti, nelle parole del Salmo 33 (che, detto per inciso, è lo stesso che invita a gustare quanto è buono il Signore): «Declina a malo, et fac bonum, inquire pacem, et persequere eam (Pàrtiti dal male, e fa’ il bene, cerca la pace e persevera in essa)» (Sal. 33,15). L’illustrazione di tale programma di vita viene resa dal santo vescovo attraverso una metafora complessa, ispirata all’arte del giardinaggio, che doveva risultare ben comprensibile alla sua discepola. Su questa metafora varrà la pena tornare per un’analisi puntale che possa rendere ragione della genialità e dell’attualità del pensiero di Sant’Antonino.