di Antonio Lovascio · Far parlare don Milani nel contesto della nostra attualità. Farlo parlare soprattutto ai giovani anche attraverso i nuovi strumenti della digitalizzazione. Con il suo motto profetico (“I care”, fatto proprio dall’Europa) e ciò che esso rappresenta. Oggi il “prendersi cura” è la sfida più grande della nostra società, dalla salute, alla famiglia, alle relazioni umane e al superamento dell’indifferenza. Il 2023 sarà l’anno del centenario di don Lorenzo, nato il 27 maggio 1923 a Firenze. E, proprio il 27 maggio, inizieranno a Barbiana gli eventi della memoria programmati sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che proseguiranno nel 2024. Come ha spiegato Rosy Bindi, presidente del Comitato nazionale creato dai tre enti milaniani, i filoni scelti saranno quattro: la dimensione ecclesiale, quella della scuola, la lotta alla povertà e la dignità del lavoro, la Costituzione e la pace. «Milani – ha sottolineato la Bindi – era prima di tutto un prete, con una fede profonda che gli dava libertà. Assieme all’Arcidiocesi di Firenze in un convegno vogliamo riflettere su questo e sulla visione della Chiesa del nostro tempo, ma anche della laicità, che lui difendeva anche se non si è mai tolto la tonaca. Poi c’è la dimensione scolastica e vogliamo riflettere in particolare sulla dispersione scolastica e sulla funzione della scuola pubblica oggi nella formazione di cittadine e cittadini. Per don Milani la Scuola era dare strumenti a tutti per realizzarsi, mettere tutti in condizione di poter essere i migliori, non mortificare i migliori. Oltre a “I care” centrale per capire la sua opera è la frase “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi”».
Allora, senza riaprire antiche polemiche, il miglior modo per riproporre la figura e l’esperienza di don Milani è quello di ripartire dalle parole pronunciate da Papa Francesco sulla tomba di Barbiana, il 23 aprile del 2017: <<Mi piacerebbe che lo ricordassimo soprattutto come credente, innamorato della Chiesa anche se ferito, ed educatore appassionato… Il Signore era la luce della vita di don Lorenzo, la stessa che vorrei illuminasse il nostro ricordo di lui L’ombra della croce si è allungata spesso sulla sua vita, ma egli si sentiva sempre partecipe del Mistero Pasquale di Cristo, e della Chiesa… La sofferenza, le ferite subite, la Croce, non hanno mai offuscato in lui la luce pasquale del Cristo Risorto, perché la sua preoccupazione era una sola, che i suoi ragazzi crescessero con la mente aperta e con il cuore accogliente e pieno di compassione, pronti a chinarsi sui più deboli e a soccorrere i bisognosi, come insegna Gesù”».
Non bastano le parole del Pontefice ? L’esemplare obbedienza alla Chiesa di don Milani traspare chiaramente dalle testimonianze dirette che nel corso della mia lunga professione giornalistica ho raccolto da chi è stato vicino a don Lorenzo, come l’allievo Michele Gesualdi, il compagno di seminario card. Silvano Piovanelli, don Alfredo Nesi, don Averardo Dini. Oppure che ho appreso da scrittori suoi contemporanei come Dino Pieraccioni e Pierfrancesco Listri. Dai loro racconti ho capito cosa significhi stare con la Chiesa anche quando essa maternamente ma fermamente ci richiama e ci corregge. Così nell’ottobre 1958 (due mesi prima che il suo “Esperienze Pastorali” fosse tolto dal commercio per ordine del Sant’Uffizio, pur avendo avuto l’imprimatur dal card. Elia Dalla Costa) scriveva al padre domenicano Reginaldo Santilli (mia guida spirituale negli anni in cui scrivevo su “Avvenire”), “censore” ecclesiastico cui spettava di diritto l’approvazione del libro: “Non mi ribellerò mai alla Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”. E ancora l’anno dopo all’amico Nicola Pistelli: “Noi la Chiesa non la lasceremo mai, perché non possiamo vivere senza i suoi Sacramenti e senza il suo insegnamento”. E al suo antico collaboratore e amico, il professor Agostino Ammannati, aveva detto: “lo vivo al centro della Chiesa, non ai margini; mi dispiacerebbe se si pensasse il contrario”.
All’incrocio fra l’evangelizzazione e l’impegno laico di ridare dignità agli oppressi, sta la “rivoluzione” di Don Milani, che fra molti accenti originali ne ha uno di straordinaria importanza: l’aver detto e dimostrato che chi apprende dà di più, inventa di più di chi insegna. Poi viene il resto: per esempio dimostrare che si è poveri non di ricchezze ma di parole e che bisogna dunque, con urgenza e prima di tutto, dar voce a chi per secoli non l’ha avuta. Come perfetto è l’ideale evangelico del prete, così perfetta e tremendamente seria doveva essere la sua scuola. Libera da strumentalizzazioni sociali e politiche; superiore ai piccoli traguardi professionali; sfida che non consente soste (“nella mia scuola si studia trecentosessantacinque giorni all’anno, domeniche comprese…”).
Rileggendo i suoi scritti mi rendo conto che Don Milani ha interpretato addirittura la missione salvatrice di Cristo tutta in chiave pedagogica: “Giorno per giorno – scriveva a un regista che doveva fare un film sulla vita di Cristo – ha studiato i suoi ascoltatori e dosato le sue parole sulla loro capacità progressiva di riceverlo. Questa lotta quotidiana contro l’indifferenza, il dubbio, l’incomprensione, la durezza di cuore e di testa dei suoi ascoltatori è il filo conduttore della sua vita”. E conclude, con parole che possiamo ora facilmente riferire a lui stesso: “Era duro, ma facendo così li conduceva per mano”.
In questo progetto che coinvolge insieme disperazione e speranza, tutto diventa magicamente scuola. Con i contadinelli don Lorenzo Milani studia gli astri e discute di politica leggendo i giornali; conversa davanti ai suoi scolari con chiunque salga a trovarlo; costruisce addirittura una piscina tra gli sterpi della canonica montana perché il corpo ha i suoi diritti e bisogna educarlo; impone l’ordine della persona ai piccoli pastori, legge annuari di statistica, studia con loro le lingue, ascolta musica. Perfino della sua morte fa un atto altissimo di carità e di scuola: vuole che quei “figli” gli siano accanto per sapere cos’è il morire e mandarlo a mente.
In questo centenario riflettere su Don Milani significa anche riconoscere che aveva ragione quando affermava “mi pare di seminare il grano trovato nelle tombe dei faraoni…”: perché si è servito davvero di sostanza antichissima per migliorare il futuro, vivendo da uomo del presente.