di Alessandro Clemenzia · In occasione della solennità dei Santi Pietro e Paolo, il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha inviato alla celebrazione in San Pietro una delegazione, che è stata a sua volta ricevuta in udienza dal Papa il 30 giugno.
Nel saluto, Francesco ha espresso la sua gioia per l’esito della quindicesima sessione plenaria della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, che si è tenuta sempre nel mese di giugno ad Alessandria d’Egitto, e dove si è raggiunto un accordo su un nuovo documento intitolato “Sinodalità e Primato nel secondo millennio e oggi”. Hanno partecipato a questa sessione plenaria alcuni membri cattolici e i rappresentanti di dieci Chiese ortodosse: il Patriarcato Ecumenico, il Patriarcato di Alessandria, il Patriarcato di Gerusalemme, il Patriarcato di Romania, il Patriarcato di Georgia, la Chiesa di Cipro, la Chiesa di Grecia, la Chiesa di Polonia, la Chiesa di Albania e la Chiesa delle Terre Ceche e della Slovacchia. Trattare il rapporto tra sinodalità e primato è stato un modo per superare alcune polemiche createsi da entrambe le parti che, come ha spiegato il Papa, ad altro non portavano se non a ripiegare l’attenzione su se stessi. A partire da quanto ci insegna la storia, «siamo chiamati a cercare insieme una modalità di esercizio del primato che, nel contesto della sinodalità, sia al servizio della comunione della Chiesa a livello universale». In questa accezione, la sinodalità appare come un metodo capace di risignificare l’esercizio del primato petrino. A tale riguardo, Francesco ha ritenuto opportuno fare una precisazione: «Non è possibile pensare che le medesime prerogative che il Vescovo di Roma ha nei riguardi della sua Diocesi e della compagine cattolica siano estese alle comunità ortodosse; quando, con l’aiuto di Dio, saremo pienamente uniti nella fede e nell’amore, la forma con la quale il Vescovo di Roma eserciterà il suo servizio di comunione nella Chiesa a livello universale dovrà risultare da un’inscindibile relazione tra primato e sinodalità».
Per non ridurre la riflessione a un piano meramente sociologico-istituzionale, il Papa recupera il fondamento teologico dell’unità tra le Chiese, ribadendo in particolare l’azione dello Spirito Santo: «la comunione tra i credenti non è questione di cedimenti e compromessi, ma di carità fraterna […]. Questa è la prospettiva dello Spirito Santo, che armonizza le differenze senza omologare le realtà».
E dal momento che la vera comunione non consiste unicamente nel guardarsi reciproco tra realtà distinte, ma soprattutto nel rivolgere lo sguardo verso una comune direzione, Francesco non ha potuto non richiamare l’attenzione sui tanti drammi causati dalla guerra in ogni parte della terra, e in particolare nel conflitto a noi più vicino, quello tra Ucraina e Russia. «Come discepoli di Cristo, non possiamo rassegnarci alla guerra, ma abbiamo il dovere di lavorare insieme per la pace. […] Certamente, la pace non è una realtà che possiamo raggiungere da soli, ma è in primo luogo un dono del Signore. Tuttavia, si tratta di un dono che richiede un atteggiamento corrispondente da parte dell’essere umano, e soprattutto del credente, il quale deve partecipare all’opera pacificatrice di Dio». Ma in che modo i credenti possono davvero essere dei costruttori di pace e di giustizia, in un contesto politico in cui tutto sembra andare verso una direzione opposta? «Il Vangelo – ha spiegato il Papa – ci mostra che la pace non viene dalla mera assenza di guerra, ma nasce dal cuore dell’uomo. A ostacolarla, infatti, è in ultima analisi la radice cattiva che ci portiamo dentro: il possesso, la volontà di perseguire egoisticamente i propri interessi a livello personale, comunitario, nazionale e persino religioso. Perciò Gesù ci ha proposto come rimedio quello di convertire il cuore, di rinnovarlo con l’amore del Padre, il quale “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45)».
In questo senso, il primo passo che le singole Chiese sono chiamate a compiere, a partire dall’esperienza di ciascuna, è quello di riconoscere che l’amore di Dio è universale, e non è confinato al proprio gruppo: «Se la nostra vita non annuncia la novità di questo amore, come possiamo testimoniare Gesù al mondo? Alle chiusure e agli egoismi va opposto lo stile di Dio che, come ci ha insegnato Cristo con l’esempio, è servizio e rinuncia di sé. Possiamo esser certi che, incarnandolo, i cristiani cresceranno nella comunione reciproca e aiuteranno il mondo, segnato da divisioni e discordie».
Il cammino verso la piena comunione tra le Chiese, sembra così suggerire il Papa, non si realizza a tavolino, né con argomentazioni teologiche, né con intenzioni politiche, ma nel riconoscere l’amore gratuito e universale di Dio, e nel testimoniare al mondo che lo stile di Dio consiste nel servizio e nella rinuncia di sé. Chissà che non sia proprio questa attenzione comune rivolta verso l’umanità, più che il guardarsi reciproco, a far sì che ciascuna Chiesa possa corrispondere in modo sempre più efficace a quell’unità che solo lo Spirito Santo può realizzare.