«Chi accoglie voi accoglie me…»: il rischio di trasformare la parola del Vangelo in slogan.
di Stefano Tarocchi · Se ho imparato una cosa in oltre trent’anni di insegnamento della Sacra Scrittura, Nuovo Testamento prima allo Studio teologico e poi alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, è quella di porgere un testo pienamente inserito nel suo contesto e idealmente completo a quanti devono leggerlo ed intenderlo, e magari spiegarlo.
Purtroppo, viviamo in anni di analfabetismo di ritorno, anche nello studio della teologia, qualcosa che si è accentuato in tempi di intelligenza artificiale che seguono il periodo nero del Covid, e anche la relativa facilità di scaricare dalla rete commenti biblici sinceramente sconcertanti.
Questa fenomenologia, estremamente complessa anche solo da afferrare, ha però una aggravante non banale, se all’omileta domenicale, com’è avvenuto fra le domeniche XI e XIII del tempo ordinario dell’anno A – quello attuale –, viene offerta un’antologia rarefatta del discorso missionario Gesù ai discepoli (Matteo 10).
L’evangelista Matteo parte dall’esperienza vitale di Gesù, che «percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità». È a questo punto che così prosegue: «vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,35-38).
Il racconto di Matteo si differenzia da quello della sua fonte più vicina, ossia che è l’evangelista Marco, che dapprima racconta la scelta dei “Dodici” (Mc 3,13-14), e poi, dopo circa tre capitoli (Mc 6,7), racconta il loro invio nella missione, nella quale gli stessi Dodici diventano gli inviati, ossia gli apostoli.
È vero che non è sempre chiara la differenza anche fra i commentatori abituali tra questa terminologia, che di fatto il solo Marco adopera in maniera realmente precisa. Si tende, cioè, a sovrapporre il termine Dodici a quello di apostoli e viceversa.
Di fatto, a partire da alcuni semplici dettagli (il tipo di moneta che non deve essere nel bagaglio degli inviati, l’assenza del bastone) lasciano trasparire un ambiente missionario molto diverso da quello, dove ad esempio il bastone è essenziale.
In Mt 10,26 invece si intima ai discepoli per due volte il comando di «non avere paura», e lo si completa indicando chi dovrebbe essere l’oggetto di questa attenzione: «abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» (Mt 10,28).
Forse il curatore del lezionario, in questa come nella domenica seguente (XIII “A”), si sente giustificato dall’aver premesso, senza degnarsi neanche di usare neanche una parentesi, una specie di premessa che si sostituisce alla parola di Dio: “Gesù disse ai suoi apostoli”, che sembra una sorta di invito al commentatore a far riferimento al testo completo. Ma questo invito sarà accolto?
E una volta ancora, nella domenica XIII “A”, sono stati omessi altri quattro versetti per arrivare finalmente alla conclusione: i vv. 37-42.
È evidente che tutto è affidato alla buona volontà del commentatore, ma anche alla saggezza di quanti ascoltano queste parole e la loro spiegazione. Questo non impedisce tuttavia di creare una obiettiva difficoltà nel commentare un testo così ricco, inquadrandolo pienamente nel suo contesto – Matteo scrive a comunità che si sono stabilita anche nelle piccole città, a differenza del racconto di Marco, che ha in mente i soli ambienti rurali, e in primo luogo pensa a una missione esclusivamente all’interno del popolo d’Israele – con il rischio di rendere del tutto marginale il pensiero di Gesù, che, mosso da compassione verso le pecore senza pastore, decide di creare intorno a sé un gruppo di discepoli che porta a tutti, nella libertà di ciascuno, il suo annuncio di salvezza, il vangelo.