Carneade e la conflittualità tra legalità e giustizia

960 475 Francesco Romano
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di Francesco Romano • “Carneade! Chi era costui?” è l’incipit con cui Alessandro Manzoni apre l’VIII capitolo de “I promessi sposi” ed è la frase che Don Abbondio “rumina” tra sé mentre legge in un “libricciolo” il panegirico che era stato pronunciato due anni prima nel duomo di Milano in onore di San Carlo Borromeo, paragonato ad Archimede per l’amore allo studio, ma anche a Carneade.
Ma chi diavolo era costui?” si domanda il povero curato. Su Archimede Don Abbondio non trovava inciampo “perché Archimede ne ha fatte di cose curiose, ha fatto dir tanto di sé, che per saperne qualcosa non c’era bisogno d’una erudizione molto vasta”. Con questo, Manzoni non intende sminuire Carneade, ma vuole dimostrare l’approssimativa erudizione del curato che non ricordava il nome di Carneade, importante filosofo, mentre ricordava benissimo Archimede perché diceva: “ne ha fatte di cose curiose, ha fatto dir tanto di sé che per saperne qualcosa non c’è bisogno di un’erudizione molto vasta”.

Quanto alla battuta: “ma chi diavolo era costui?” messa in bocca a Don Abbondio, similmente nel “Dialogo contra academicos”, a proposito di Carneade, S. Agostino faceva dire a un suo interlocutore di non saperne nulla: “Ego, ait, graecus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit”. L’ignoranza di Don Abbondio è bastata per far diventare un non disprezzabile antico filosofo sinonimo di personaggio ignoto tanto che il suo nome viene attribuito spesso, anche in senso ironico o dispregiativo, a qualcuno per essere un emerito sconosciuto, appunto come “un Carneade”.

Carneade di Cirene, filosofo neoaccademico, nel 155 a.C. si era recato a Roma con un’ambasceria inviato dagli ateniesi, multati per aver saccheggiato Oropo. Il fatto viene riportato da Cicerone (De Rep. III.21) che riprende e discute sopra i due discorsi di Carneade a favore e contro la giustizia.

Se i Romani avessero voluto essere giusti avrebbero dovuto restituire le terre occupate, ma in questo caso un atto di giustizia sarebbe stato considerato stoltezza. Carneade mette in dubbio, con argomentazioni pro e contro, che vi sia una legge naturale universalmente valida e la differenza tra i vari popoli nella pratica del diritto dovuta al principio di utilità.

Anche per i Romani a fondamento della giustizia c’è l’utilità che giustifica la conquista delle terre anche commettendo soprusi. Tutti gli uomini sono portati a perseguire l’utile proprio sotto la guida della natura. La conclusione per Carneade, come riportato da Cicerone, è che la giustizia non esiste o se esiste è il colmo della follia perché finirebbe per nuocere a se stessa per servire al vantaggio altrui. Fare giustizia significherebbe rinunciare al proprio utile. Da qui l’assioma successivamente noto come “follia della giustizia” alla quale probabilmente si ispirò Erasmo da Rotterdam per il paradosso della esaltazione della follia nella sua opera “Elogio della follia” (titolo originale in latino Moriae encomium; in greco: Μωρίας ἐγκώμιον, ovvero “stultitiae laudis declamatio”.

Osserva Carneade che il diritto naturale e quindi la giustizia non trovano applicazione perché i popoli si danno egoisticamente leggi variabili a seconda delle situazioni e il soddisfacimento dei propri interessi. Pertanto applicare la giustizia sarebbe stoltezza perché vorrebbe dire sacrificare all’equità dei rapporti i propri interessi.

Carneade rivolge questa argomentazione ai Romani che dopo la seconda guerra punica avevano conquistato il controllo del Mediterraneo trasformandolo in “mare nostrum” da “res communis omnium” quale è per diritto naturale.

Applicando la giustizia ai popoli vinti, i Romani si sarebbero comportati da stolti autolesionisti perché sarebbero tornati a essere di nuovo poveri come prima delle conquiste. Quindi seguire la giustizia per diritto naturale è una follia perché comporta la negazione alla ricerca del proprio utile.

Il discorso di Carneade riportato da Cicerone riguardo alle conquiste usurpatrici dei Romani è di facile comprensione anche riguardo alle vicende attuali che stiamo vivendo: “pertanto chi abbia procacciato alla propria patria questi beni, come essi li chiamano, chi cioè abbia riempito l’erario di danaro a costo della distruzione di città e dell’annientamento di popoli, che abbia occupato territori, chi abbia reso più ricchi i propri cittadini, questi è innalzato con le lodi fino al cielo, in costui si ritiene che consista somma e perfetta virtù; ed è questo un errore non soltanto del volgo e degli ignoranti, ma anche dei filosofi, che perfino danno insegnamenti per l’ingiustizia, perché dottrina e autorità non vengono a mancare alla stoltezza e alla malvagità […] Tutti i popoli fiorenti per domini, e in particolare i Romani che si impadronirono in tutto il mondo, se volessero essere giusti, cioè restituire le cose altrui, dovrebbero ritornarsene alle capanne e giacersene in povertà e miseria”.

Da ciò deriva l’iniquo sopravvento sulla giustizia delle leggi positive fatte dagli uomini per loro interesse. Queste due figure giuridiche, legalità e giustizia, sono spesso in contrapposizione. Il sistema della legalità fatto di norme e consuetudini creato nelle diverse comunità rappresenta un sistema distinto e autonomo dalla morale. Il diritto come arte di governo è autonomo dalla morale.

I popoli e gli uomini tendono a cercare la propria convenienza attraverso il diritto positivo e gli ordinamenti internazionali che tutelano gli interessi dei singoli o delle comunità da generare contrasto tra legalità e giustizia.

La conclusione di Carneade fu che tra saggezza e giustizia c’era contrasto, come tra legalità e giustizia. Infatti se i Romani volessero essere giusti dovrebbero restituire i territori che avevano usurpato, ma questa opzione li avrebbe qualificati come stolti. Rinunciare all’utilità che per i Romani è il valore che sta a fondamento delle loro conquiste è da stolti, è la “follia della giustizia”.

Se la giustizia esiste è il colmo della stoltezza perché nuocerebbe ai Romani per rinunciare al patrio vantaggio. Il valore che sta a fondamento non è la giustizia, ma l’utilità e ciò determina la differenza tra vari popoli nella pratica del diritto per cui secondo Carneade non esiste una legge naturale universalmente valida. L’uomo si comporta di volta in volta in base al criterio di ragionevolezza di probabilità. La nozione di giusto e ingiusto varia da città e città e nel tempo anche nella stessa città.

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Francesco Romano

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