Ancora in occasione del 60° anniversario di Pacem in terris (1963)

Pacem in terris sembra scritta oggi, tale è l’attualità dell’analisi della situazione mondiale e delle proposte suggerite per affrontarla correttamente. Con l’ottimismo che caratterizza Giovanni XXIII, originato dal “realismo cristiano” lontano da ogni forma di superficiale e acritica valutazione dell’esistente e, tuttavia, aperto alla speranza nel futuro, il documento si impegnava ad interpretare nel panorama internazionale alcuni «segni dei tempi» che, «fra tanta tenebrosa caligine», apparivano «indizi … che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità» (Humanae salutis, 1963). Questi erano individuati, in particolare, nell’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, nell’ingresso della donna nella vita pubblica, nell’aspirazione alla decolonizzazione e alla costituzione di comunità politiche indipendenti (cf. Pacem in terris, nn. 21-25) e, infine, nella sempre più diffusa persuasione che le eventuali controversie tra i popoli debbano essere risolte attraverso il negoziato, sia per l’orrore della forza terribilmente distruttiva delle armi moderne sia per la speranza che gli uomini, incontrandosi, scoprano «che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore» (n. 67).

Il fatto è che, annotava ancora l’enciclica, la pace non può affermarsi senza appoggiarsi su alcuni pilastri che la sorreggono, ovvero i pilastri della verità, la giustizia, l’amore e la libertà (Pacem in terris, n. 18). Verità e giustizia esigono che si proceda alla creazione di un mondo in cui vengano meno le diseguaglianze che sono all’origine dei conflitti da cui scaturiscono le guerre e nel quale la logica della separazione e dell’opposizione lasci il posto alla ricerca di sempre nuove forme di cooperazione tra i singoli e tra le nazioni. Libertà e amore, a sua volta, rendono necessaria la promozione di condizioni che salvaguardino la dignità della persona perché senza rispetto per la dignità delle persone, la loro libertà, senza amore e fiducia, non è possibile coltivare una cultura della pace (Card. P. Turkson).

Probabilmente proprio qui sta il punto. In occasione della consegna a Oslo del Nobel per la pace a Madre Teresa di Calcutta, l’11 dicembre 1979, dove nella motivazione si annotava, tra le altre cose, che «una caratteristica del suo lavoro è stato il rispetto dell’essere umano, la sua dignità e il valore innato, il suo impegno per l’inviolabilità della dignità di ogni uomo», la Santa, nel suo discorso, disse qualcosa di molto forte, politicamente quasi “scorretto”: «Il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta, un’uccisione diretta, un omicidio commesso dalla madre stessa… Perché se una madre può uccidere il proprio stesso bambino, cosa mi impedisce di uccidere te e a te di uccidere me? Nulla».

Madre Teresa ripeté continuamente, anche in altre occasioni e di fronte a tutti i potenti della terra, il concetto di aborto come atto che mina la pace. Nel 1992 in un discorso per l’inaugurazione della prima culla per la vita in Italia, mise addirittura in relazione aborto e terrorismo: «Se una madre può uccidere il suo stesso figlio nel suo grembo, perché ci meravigliamo della violenza e del terrorismo che si sparge attorno a noi?».

Sono parole sulle quali tutti dovrebbero riflettere prima di parlare di pace e di guerra.