di Leonardo Salutati · In occasione del Convegno internazionale organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e dall’Istituto di Ricerca sulla Pace di Oslo nei giorni 19-20 settembre 2023 alla Casina San Pio IV in Vaticano, dedicato ai 60 anni dalla pubblicazione della Pacem in Terris, Papa Francesco ha inviato un messaggio in cui ribadiva l’immoralità «dell’uso dell’energia atomica per scopi bellici» ed anche «il solo possesso di armi nucleari», oltre ad esprimere preoccupazione per l’utilizzo delle “armi convenzionali” comunque «con immenso potere distruttivo», quando non utilizzate solo a scopo difensivo e dirette verso obbiettivi civili.
Pacem in terris sembra scritta oggi, tale è l’attualità dell’analisi della situazione mondiale e delle proposte suggerite per affrontarla correttamente. Con l’ottimismo che caratterizza Giovanni XXIII, originato dal “realismo cristiano” lontano da ogni forma di superficiale e acritica valutazione dell’esistente e, tuttavia, aperto alla speranza nel futuro, il documento si impegnava ad interpretare nel panorama internazionale alcuni «segni dei tempi» che, «fra tanta tenebrosa caligine», apparivano «indizi … che sembrano offrire auspici di un’epoca migliore per la Chiesa e per l’umanità» (Humanae salutis, 1963). Questi erano individuati, in particolare, nell’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, nell’ingresso della donna nella vita pubblica, nell’aspirazione alla decolonizzazione e alla costituzione di comunità politiche indipendenti (cf. Pacem in terris, nn. 21-25) e, infine, nella sempre più diffusa persuasione che le eventuali controversie tra i popoli debbano essere risolte attraverso il negoziato, sia per l’orrore della forza terribilmente distruttiva delle armi moderne sia per la speranza che gli uomini, incontrandosi, scoprano «che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l’amore» (n. 67).
Ognuno di questi «segni» meriterebbe un accurato confronto tra la situazione di ieri e quella di oggi, ma qui possiamo solo offrire qualche spunto di riflessione. Il primo dei «segni» ha visto in molti paesi la rivendicazione e il conseguimento di spazi più umanizzanti per far uscire il lavoratore da uno stato di pesante alienazione fisica e psicologica. Purtroppo, a partire dagli anni ottanta, questo processo ha gradualmente rallentato andando incontro a una stagione di forte declino. Il secondo «segno» ha avuto un esito analogo. Dopo il boom del “femminismo” tra gli anni settanta-ottanta con la rivendicazione della parità dei diritti tra uomini e donne, di fatto non si sono ancora realizzate quelle pari opportunità intraviste dall’enciclica nell’ambito della vita politica e pubblica in genere. Non meno problematico in relazione alla sua concreta attuazione è il terzo dei «segni» che ha avuto una involuzione ancor più consistente delle precedenti. Infatti, dopo un periodo di decolonizzazione, si sta assistendo da anni ad una inversione di tendenza, dovuta sia alle difficoltà di autogoverno di popoli a lungo dipendenti, sia a ragioni strettamente economiche, andando ad affermarsi una sorta di neocolonialismo basato sullo sfruttamento dei popoli e delle loro risorse. Basta osservare quanto sta avvenendo in Africa e in America Latina, dove continua in altro modo l’occupazione del territorio da parte delle nazioni più avanzate e potenti. Infine, riguardo al quarto dei «segni», nonostante documenti importanti come il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968 e il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari del 2017, «la cupa realtà della guerra è ancora molto presente. La ricerca sull’intelligenza artificiale ha permesso lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma automatizzati, mentre le tecnologie digitali sono sempre più utilizzate come armi nei conflitti informatici. Forme potenti di disinformazione digitale sono in aumento e la guerra ibrida – che mescola misure militari, informatiche ed economiche – ha intensificato la cupa nube di insicurezza che incombe sul mondo» (H. Alford – G. Reichberg).
Il fatto è che, annotava ancora l’enciclica, la pace non può affermarsi senza appoggiarsi su alcuni pilastri che la sorreggono, ovvero i pilastri della verità, la giustizia, l’amore e la libertà (Pacem in terris, n. 18). Verità e giustizia esigono che si proceda alla creazione di un mondo in cui vengano meno le diseguaglianze che sono all’origine dei conflitti da cui scaturiscono le guerre e nel quale la logica della separazione e dell’opposizione lasci il posto alla ricerca di sempre nuove forme di cooperazione tra i singoli e tra le nazioni. Libertà e amore, a sua volta, rendono necessaria la promozione di condizioni che salvaguardino la dignità della persona perché senza rispetto per la dignità delle persone, la loro libertà, senza amore e fiducia, non è possibile coltivare una cultura della pace (Card. P. Turkson).
Probabilmente proprio qui sta il punto. In occasione della consegna a Oslo del Nobel per la pace a Madre Teresa di Calcutta, l’11 dicembre 1979, dove nella motivazione si annotava, tra le altre cose, che «una caratteristica del suo lavoro è stato il rispetto dell’essere umano, la sua dignità e il valore innato, il suo impegno per l’inviolabilità della dignità di ogni uomo», la Santa, nel suo discorso, disse qualcosa di molto forte, politicamente quasi “scorretto”: «Il più grande distruttore della pace oggi è l’aborto, perché è una guerra diretta, un’uccisione diretta, un omicidio commesso dalla madre stessa… Perché se una madre può uccidere il proprio stesso bambino, cosa mi impedisce di uccidere te e a te di uccidere me? Nulla».
Madre Teresa ripeté continuamente, anche in altre occasioni e di fronte a tutti i potenti della terra, il concetto di aborto come atto che mina la pace. Nel 1992 in un discorso per l’inaugurazione della prima culla per la vita in Italia, mise addirittura in relazione aborto e terrorismo: «Se una madre può uccidere il suo stesso figlio nel suo grembo, perché ci meravigliamo della violenza e del terrorismo che si sparge attorno a noi?».
Sono parole sulle quali tutti dovrebbero riflettere prima di parlare di pace e di guerra.